Nigeriane, albanesi, rumeni, tunisini fanno rima con prostitute, immigrati, spacciatori, pregiudicati, clandestini. Semplice vero? E falso. Ma allora perchĂŠ alcune etnie hanno la stessa faccia della malavita, o la rappresentano? Provate a chiederlo a Google Images, come ha semplicemente fatto Fabrizio Bellomo (Bari, 1982) in un progetto fotografico, intitolato Screenshoot, in mostra a Milano alla Galleria Rossana Ciocca. Semplici frame, in una disposizione a dir poco sintetica, dove le foto segnaletiche o di cronaca si mostrano identiche a quelle di identitĂ . Potere dei media, nel promulgare e stratificare una serie di stereotipi razzisti nati dalla cronaca nera, dove a stupri, rapine, omicidi, violenze, attivitĂ illecite e chi piĂš ne ha piĂš ne metta, sono state associate ancor prima dei nomi dei diretti colpevoli, le loro nazionalitĂ . La differenza, cosĂŹ, si appiana e il motore di ricerca si inceppa, visto che non cerca proprio piĂš nulla ma rende visibile il proverbio del âfare di tutta lâerba un fascioâ.
E ad un altro proverbio Bellomo rende corpo tramite un video, nella seconda sala della galleria. Sembra piuttosto slegato alla prima indagine quasi lombrosiana o riferente agli studi criminologici di Alphonse Bertillon dei primi anni del â900, e invece alcuni tratti sono in comune con le fotografie raccolte da Google.
Per esempio siamo in Albania, piĂš precisamente a Tirana, agli angoli di una rotonda. Che cosa avviene in scena? Qui, ogni giorno, decine di uomini si mettono âin venditaâ con il loro strumento di lavoro: martelli pneumatici, fresatrici, trapani. Ognuno attende di essere rimorchiato (come una ânigerianaâ, nâest pas?) per poter far fruttare la propria professionalitĂ . Realizzato grazie al contributo di GAI-MovinâUp e al supporto di Fujimfilm e Tirana Art Lab, lâopera è nata dal proverbio albanese VEGLA BĂN USTAIN, ovvero âLo strumento fa il maestroâ o, in unâaltra versione, il mezzo con cui lavoriamo predomina sulle nostre vite, e dĂ forma alla nostra esistenza, specialmente materiale. Una condizione che ci riporta anche allâintervento che nel 2012 Bellomo realizzò, su commissione del MUFOCO, al Carroponte di Sesto San Giovanni: unâistallazione che mostrava lâingrandimento di una targa ritrovata a Bari in una ex acciaieria e che riportava lâaforisma: âAbbi cura della macchina su cui lavori, è il tuo paneâ. Un circolo vizioso tra identitĂ , che a Tirana Bellomo tenta di spezzare decontestualizzando il lavoro: lâartista incarica un operaio-martello pneumatico di scrivere proprio VEGLA BĂN USTAIN sulla facciata di edificio nei pressi della rotonda-ufficio di collocamento. Unâazione (con retribuzione per il Mastro) che diviene opera pubblica, lontana da qualsiasi funzione edile o affine, ma ritratto dellâumanitĂ in (s)vendita.
Matteo Bergamini
Dal 28 ottobre 2015 al 12 gennaio 2016
Fabrizio Bellomo, Senza Titolo
a cura di Francesca Guerisoli
Galleria Rossana Ciocca
Via Lecco 15, 20124 Milano
Orari: Dal lunedÏ al venerdÏ dalle 14.30 alle 18.30 o su appuntamento