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Fino al 12.VII.2015 | Manoocher Deghati, Being Human | FotoArte Puglia, Palazzo Pantaleo, Taranto

di - 9 Luglio 2015
Trenta mostre fotografiche, con temi che spaziano dal ritratto intimista al reportage, di artisti provenienti dall’Italia e dall’estero, per 370 fotografie da ammirare in varie sedi storiche riadibite al contemporaneo. Questa l’occasione data alla Città Vecchia di Taranto che con FotoArte Puglia, ormai alla sua 12ma edizione, conquista un posto al sole nel panorama internazionale. In quanto, anche se il sole la illumina tutto l’anno, il disastro ambientale la consuma e la adombra, meritando di essere raccontato in un reportage di serissima denuncia. Ed è questo uno dei punti toccati nell’intervista con l’ospite d’eccezione della manifestazione, che come altri fotografi e insieme a loro, espone in uno dei palazzi fronte mare più suggestivi della città. Manoocher Deghati, pluripremiato a livello internazionale è tra le personalità più accreditate della fotografia contemporanea; in mostra a Palazzo Pantaleo, ha scelto di portare due decine di scatti che condensano la sua missione fotografica trentennale. Una galleria evocativa di stampe che portano lontano e accompagnano il pubblico in scenari stupefacenti. Being Human, il titolo che le accomuna, racchiude il senso di ognuna: la necessità di mantenersi legati al proprio essere umani di fronte alla tragedie del globo, di conservare un rispetto grande di fronte allo sgomento e alla miseria. Immagini pregnanti di un’umanità, appunto, che dimostra le doti dei soggetti di reagire alla vita e del fotoreporter di coglierne lo spirito migliore.
Deghati, dal curriculum difficilmente sintetizzabile, ha iniziato a lavorare con la fotografia in occasione della rivoluzione nel suo paese d’origine, l’Iran. Dal 1978 racconta alla ribalta internazionale l’attualità di contesti remoti, informando sulle condizioni di paesi in guerra o colpiti da calamità di difficile narrazione. Lavorando come corrispondente di diverse testate giornalistiche e per agenzie importanti, le sue fotografie hanno fatto la storia. Una storia che Deghati è pronto a raccontare con eroica intensità, impeccabile e coraggioso fotografo, che svela quanto dietro ad ogni dettaglio ci sia una vicenda umana, a suo dire indimenticabile. L’evento tarantino, organizzato dal circolo fotografico “Il Castello” ed altre associazioni regionali dal 27 giugno al 12 luglio, è stata occasione speciale per incontrarlo – anche se da qualche tempo ha scelto di restare a vivere in Puglia, proprio in questa provincia – e per rivolgergli discretamente delle domande, ascoltandolo raccontare l’emozione che lo muove: “testimoniare l’assurdità della guerra, pur evidenziando i valori della pace”.

«Partiamo dall’origine di questo tipo di fotografie, fatte sì in paesi dove c’è conflitto, fame, guerra però cercando la vita; io come fotogiornalista ho sempre voluto evitare il cliché del raccontare solo la miseria, che è davanti ai tuoi occhi ed è la cosa più facile da fotografare ma purtroppo descrive la condizione della gente che hai davanti togliendole dignità; io invece in zone di guerra ho cercato i momenti di gioia, ho fotografato anche i morti e la distruzione perché fa parte della “sceneggiatura” ma ho cercato altro: descrivere che siamo tutti umani! Tutti abbiamo momenti di profonda difficoltà ma anche attimi in cui sentiamo la vita, e questo accade anche in zone di conflitto, momenti che si vedono di meno ma esistono! Per questa mostra ho raccolto dal mio archivio con l’idea di rendere proprio il medesimo umore, istanti positivi che le persone vivono anche nelle situazioni peggiori, scegliendo tra le fotografie con l’obiettivo di riunirle sotto il titolo Human Being, essendo umano».
In mostra anche immagini dei primi incarichi professionali a fine anni ’70. Quando hai scattato la tua prima fotografia?
«Questo è difficile dirlo. Scattavo anche prima di quel 1978 in cui ho iniziato a fotografare professionalmente, quando da Roma, dove ero andato a studiare cinema, sono tornato nel mio paese per documentare la rivoluzione iraniana, e l’ho fatto anche per interessi personali nei confronti delle sorti dell’Iran. Io volevo fare vedere “le cose non giuste” e denunciare attraverso i miei reportage».
Il reportage è più uno strumento di denuncia o di narrazione?
«Ogni foto ha il suo senso documentativo ma al contempo una capacità di denuncia; è inevitabile in quanto ti ritrovi davanti alla realtà, che seppur alcune personalità e autorità internazionali non vogliano mostrare fuori dal contesto, la fotografia può mostrare; è un documento che non si può negare, è più solida della scrittura, ed anche se in partenza non ha come direzione la denuncia, può diventarne strumento».
Ci sono stati momenti in cui per fotografare hai avvertito la paura di come poteva andare a finire?
Sorride. «Sempre. Ho avuto sempre paura, perché sono un uomo. Quando vedi persone morire davanti a te e bombe cadere, senza sapere se ti arrivino o no in testa, chiaramente si prova paura. L’unica volta in cui non ne avevo, sono stato ferito. Un cecchino israelita mi ha colpito in Palestina. Mi è costato due anni di degenza in un centro di recupero per militari francesi, dove però ho realizzato comunque un importante servizio fotografico: ero lì come paziente ma anche come fotografo, impegnato personalmente e di mia iniziativa, scattando dalla sedia a rotelle; ho testimoniato storie incredibili di veterani della Prima Guerra Mondiale, della guerra d’Algeria, tra gli altri, e di partigiani che vivevano là».
Qual è il segreto del reporter?
«Essere umano! Perché i tuoi soggetti sono umani quanto te. Bisogna avere la sensibilità di relazionarsi, e non compatire il pianto altrui, ma dividere le emozioni come loro spesso hanno fatto col cibo che avevano a disposizione. Come fotoreporter entri nella vita della gente che ti guarda come fossi un messaggero che può mostrare al mondo il loro mondo, molte volte in queste situazioni le persone chiamano per chiederti di fotografarli, al punto da farti sentire davvero utile. Per catturare momenti irripetibili serve un contatto umano. Per me gli uomini sono uomini, ovunque. La sofferenza umana è uguale dappertutto, per motivi diversi, ma allo stesso modo».
Cosa ne pensi dell’editing fotografico?
«Anche prima del digitale è sempre esistita la possibilità di ritoccare la foto in fase di stampa con interventi tecnici volti a migliorare le immagini, aggiustando per esempio contrasto e colori. Questo fa parte della fotografia. Con mezzi digitali e programmi specifici, purtroppo però, la gente ha superato la linea etica che per noi fotogiornalisti è vietato oltrepassare, una linea rossa che indica un limite nell’intervento di miglioramento oltre il quale stai manipolando la realtà. Il fotogiornalismo, al contrario, è proprio far vedere la realtà come è».
Cristina Principale

Dal 27 giugno al 12 luglio 2015
Manoocher Deghati, BEING HUMAN
MUDI, Museo Diocesano,
Vico Semianario I, Città Vecchia, Taranto



Storica dell’arte, e-writer e fotografa, collabora con il Dipartimento delle Arti Visive dell’Università di Bologna dove si è specializzata in Psicologia dell’arte con una ricerca in Neuroestetica. Dal 2011 lavora nell’editoria e nella Comunicazione & Marketing aziendale. È socia della IAAP - International Association for Art and Psychology, impegnata in azioni di promozione culturale.

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