Arrivati in Puglia, visitare Palazzo Della Marra Fraggianni è d’obbligo: è un esempio barocco fuori dal contesto leccese, in uno dei centri più variegati del meridione. Barletta, città di mare, del romanico e della storica disfida, da poco è “città d’arte”. Qui si sta costituendo un Polo museale d’attrazione internazionale, che accorpa, oltre al castello ed alla Cantina della Sfida, la Pinacoteca Giuseppe De Nittis: il figliol prodigo vi è accolto definitivamente, grazie ai cospicui finanziamenti impegnati per il riallestimento della collezione omonima ed un programma di eventi collaterali coordinati da Emanuela Angiuli.
Gli ottimi allestimenti della Pinacoteca, affidati all’architetto bolognese Cesare Mari per Panstudio -che sceglie pannelli di supporto dalle tenui nuance, prestate dalla tavolozza denittisiana- sembrano preludere ad un’adeguata scelta curatoriale. Invece, purtroppo, si è scivolati in spiacevoli carenze museologiche nell’esposizione, senza contestualizzare l’iter del poliedrico pittore –come aveva fatto Renato Miracco nella recente retrospettiva itinerante–, artista che ha assorbito tracce napoletane, macchiaiole, pittura alla moda e novità impressioniste e ha anticipato la pittura fin de siècle e le sperimentazioni calcografiche.
Visitando l’esposizione permanente, al secondo piano del Palazzo, si gode della “bella pittura” del barlettano -un delizioso viaggio tra paesaggi pugliesi, napoletani, bel mondo parigino e atmosfere londinesi, ritrattistica raffinata e controluce- senza alcun criterio cronologico, guidati dai suggestivi stralci dal Taccuino dell’artista, ad illustrare un personaggio sensibile, frenetico lavoratore, uomo à la page, e nessun supporto didattico o bilingue nelle didascalie e nei pannelli. Un’esposizione tematica, in cui alcune opere di gran pregio appaiono fuori tema, forse solo perché fuori misura (il raffinato ritratto a pastello Inverno, ad esempio), o prive spesso di datazione (magari solo attribuita, orientativa, sarebbe necessaria) o addirittura esprimono grossolani errori nella descrizione delle tecniche calcografiche.
Per l’esposizione permanente, una revisione attenta, eseguita da un comitato scientifico di esperti dell’artista, è da ritenersi d’obbligo.
Lasciata la Pinacoteca, al primo piano del palazzo è allestita la mostra temporanea dei “pittori della felicità”: circa ottanta tra dipinti, disegni, pastelli e grafiche di Federico Zandomeneghi (Venezia, 1841 – Parigi, 1917), Auguste Renoir (Limoges 1841 – Cagnes sur Mer 1919) e Giuseppe De Nittis (Barletta 1846 – S. Germain en Laye 1884). Sebbene il nostro sia riconosciuto quale squisito pittore dei grigi e della malinconia, quindi concettualmente lontano dall’umore dei due compagni di mostra, i tre artisti sono effettivamente affini anagraficamente; ma De Nittis muore precocemente, quando i due coetanei avranno davanti una lunga carriera, supportati dal medesimo mercante, il notissimo Durand Rouel. Zandò era stato l’ultimo dei tre “italiens de Paris” a raggiungere Parigi, nel 1874, aderendo al gruppo dei dessinateurs capeggiati da Degas, trovandosi subito in contrasto con i coloristes di Renoir. Ma nell’esposizione manca del tutto un chiaro dialogo-scontro di stampo critico tra i tre autori. Del più grande la mostra espone poche testimonianze (tra cui le chicche Il cappello appuntato del 1894 e una Bagnante del 1902), offrendosi più che altro come una retrospettiva del pittore veneto, citato per primo e presente in mostra in maniera più corposa. Artista poco conosciuto dai non addetti ai lavori, Zandomeneghi è giustamente da promuovere –ottimi, a tal proposito, i saggi in catalogo della curatrice Gigliola Sparagni– ma con una selezione più rigorosa, cassando alcune produzioni palesemente ispirate alla cifra stilistica di Degas, Lautrec e Bonnard.
Lo stesso Vittorio Sgarbi, presidente del comitato scientifico, ha preso elegantemente le distanze dalle scelte curatoriali della mostra, ironizzando pubblicamente su Renoir quale ovvio specchietto per le allodole e Zandomeneghi che serve a far capire quanto sia più bravo De Nittis. L’ha detto, offrendosi tuttavia –da buon amico di Mario Paloschi, presidente di Arthemisia- come indispensabile intermediario del prestito firmato Renoir, che impreziosisce una mostra che pare abbia come prioritaria finalità l’omaggio ad un minore e alla Fondazione che lo supporta.
giusy caroppo
mostra visitata il 31 marzo 2007
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