Il concetto di “non-arte” è già stato ampiamente sviluppato in un secolo di ricerca. Dunque, ogni artista contemporaneo che ci si cimenti con la decostruzione del concetto di opera assume un grosso rischio: di ripetitività oppure di debolezza rispetto alle avanguardie (storiche e neo).
Francesco Impellizzeri (Trapani, 1958; vive a Roma e a Madrid) fa fronte a tale rischio introducendo nella sua ricerca una forte dose di ironia e ambiguità. La prima parte della mostra è costituita dai Pensierini, fogli protocollo su cui l’artista, mettendosi nei panni di un bambino delle elementari, scrive piccole composizioni e disegna l’immagine corrispondente. Gli argomenti trattati sono fatti di cronaca, avvenimenti televisivi e anche esperienze personali (dubbi e stimoli del fare arte, visto che il “bambino” è pur sempre Impellizzeri). Viene reso evidente il condizionamento che ogni individuo subisce sin dall’infanzia: innanzitutto i fogli sono costellati dalle correzioni in rosso di un’immaginaria maestra. Inoltre, è evidente l’influenza della televisione e della comunicazione di massa: l’immaginario utilizzato è quello iper-pop dei politici-showman e dei vip di quart’ordine. E anche i fatti di cronaca sono filtrati dalla percezione che se ne ricava dai telegiornali.
I pensierini sono composti secondo il condizionamento linguistico che investe gli allievi delle scuole elementari. In essi compaiono le forme pedisseque e ridicole che derivano dalla ripetizione automatica delle regole dettate dalle maestre: evitare le ripetizioni, rispettare la punteggiatura. L’applicazione di queste regole -proprie di chi sta imparando ad esprimersi- ad un immaginario adulto evidenziano come anche l’individuo “cresciuto” sia vittima di un modo di pensare imposto socialmente. Il pericolo del qualunquismo è dietro l’angolo, dunque, ed è pressoché inevitabile.
Una possibilità di uscire dagli schemi è simboleggiata nella seconda parte della mostra, laddove Impellizzeri dà vita ad una serie di pose en travesti che evidenziano le molteplici identità possibili di ciascun individuo. La natura eccessiva e teatrale di queste identità fa però riflettere su come il condizionamento evidenziato dai Pensierini sia comunque presente: si tratta in ultimo non di vere liberazioni identitarie, quanto piuttosto di mascheramenti, provvisori e falsificabili.
L’artista crea in prima persona queste rappresentazioni: è egli stesso a posare, rendendosi irriconoscibile rispetto al suo aspetto “in borghese”. Una sorta di travestitismo artistico che porta avanti la tradizione ad esempio di Urs Luhti, pur se con meno connotazioni psicanalitiche e molta più concretezza propria della “società dello spettacolo”.
Si tratta di una mostra apparentemente giocosa, ma all’interno della quale non si sfugge dal senso di condizionamento e costrizione. Proprio come suggerito dalla presenza in galleria dei banchi di scuola delle elementari, che sembrano gabbie al cospetto dei nostri corpi troppo cresciuti per entrarvi.
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stefano castelli
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