Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: E’ un verso, che avrebbe potuto scrivere Ettore Frani (Termoli 1978, vive e lavora a Roma ) poeta, che si esprime col pennello, che pone una domanda all’essenza. La sua, potrebbe essere definita una pittura del silenzio. Della riflessione. Perché, stare di fronte alle sue opere, è lasciarsi coinvolgere da una visione inaspettata, è porsi un interrogativo, magari lo stesso che si è posto l’autore. Cosa c’è al di là del visibile? Un pensiero che ci sorprende, avvolti nella dimensione di quiete che il suo lavoro riflette, fra nebbie bianche, ombre grigie e sapienti stratificazioni che ci separano dall’invisibile. Ed ecco i lembi di colore, passato e ripassato, la tavolozza dei grigi, le sfumature illimitate, l’alone di una presenza, dove tutto sembra lontano, in un hinc et nunc che si può toccare. E la grande capacità tecnica di un pittore, che elabora sapientemente la sua poetica e costruisce con pazienza il suo lavoro.
A parlare della sua ricerca compositiva, della sua finalità estetica, ci sono le date dietro i quadri, a volte ne compaiono due o tre, testimonianza di revisioni continue, di aggiustamenti, di velature che cambiano qualcosa, anche in modo impercettibile nel risultato finale. Sovrapposizioni, un poco maniacali, generate dal pennello, mani passate e ripassate nel tempo. Pittura, come sguardo interiore e il mare, quello di Radura, dissonanza rispetto al contenuto, del grande trittico che apre la mostra, un titolo per un racconto intimistico, meditazione profonda, marcato solipismo. In una dialettica fra buio e luce, dove l’acqua pare sospesa fra cielo e terra. Laddove, il linguaggio visivo allude ad una ricerca interiore, alla ricerca dell’inconoscibile, del Noumeno. Al di là del velo di Maya. Quando appare un chiarore, come luce che nasce da dentro e il rapporto è fra Lichtung e Verbergung, illuminazione e nascondimento, fra ciò che è e ciò che potrebbe esserci. Un nuovo contesto di suggestive velature, dove sembra esserci lo spirito di un ectoplasma e l’opera si intitola Mnemosyne. Di lato, come fece Giotto, l’abile disegno di una mosca, così perfetta da sembrare in procinto di prendere il volo e, come accadde per la mosca su un dipinto di Holbein, vien voglia di scacciarla. Una mosca, all’improvviso, che irrompe sulla tela, cattura l’attenzione ed esprime il concetto di permanenza delle cose, sottolinea il principio di realtà.
E, forse, sta lì, ad indicare la precarietà esistenziale, quando sarà lo stesso Frani a dire, quella mosca sono io. Del pittore che dipinge col sentimento, vincitore del Premio d’arte San Fedele 2010, alla galleria L’Ariete, c’è un’opera solitaria: Semenza: sembra quasi un firmamento, una esplosione di brandelli e c’è una piccola luce, ad illuminare i pensieri di un artista, che alla luce, affida il suo messaggio. Poi, di nuovo i bianchi, che bianchi non sono gli strati di colore ripetuti, altrove, macchie più scure sulle tavole, come traccia di vita passata, come faville in volo ormai spente. Come lembi di pensiero, ombre di una sindone che racchiude il mistero e nuove piccole oasi di luce. Coperta di Linus, del pittore introverso, che dice sottovoce : “il flusso e riflusso delle onde, mi parla di ciò che va e torna dal fondo”.
cecilia ci
mostra visitata il 23 Aprile 2010
Dal 18 Marzo 2011 al 21 Maggio 2011
Ettore Frani
Limen Galleria L’Ariete Contemporanea
Bologna Via Massimo d’Azeglio n.42
Info 348 9870574 | Orario > feriali 15.30-19.30
La mostra e’ corredata da una monografia edita per l’occasione da vanilla edizioni con testi di Stefano Castelli e Massimo Recalcati
[exibart]
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