Il premio Vasto, giunto quest’anno alla sua trentottesima edizione, oltre che omaggiare le esperienze artistiche romane degli Anni Sessanta, vuole essere uno spunto di riflessione critica sul presente, trattandosi di poetiche ancora attuali e di riferimento per molti artisti contemporanei. Curata da Maurizio Calvesi e Alberto Dambruoso, la mostra ripercorre gli sviluppi della scuola di Piazza del Popolo, concentrati pressoché in un decennio (1958/1968), accentuandone la singolarità, le contaminazioni e soprattutto l’attualità.
L’attenzione si sposta dunque sugli anni Sessanta: gli anni del boom economico, di una nuova emancipazione dei costumi e delle abitudini. L’avvento della televisione e dei media trasforma il panorama artistico: l’arte ora dialoga con il flusso delle informazioni trasmesse, ne prende in prestito gli strumenti, ne rielabora il contenuto. Diversi i campi d’indagine: c’è chi prende spunto dalle immagini mediatiche, come Fabio Mauri (Schermi, 1958) o Sergio Lombardo, che ingigantisce gesti stereotipati d’uomini politici, in un linguaggio ancora vicino a quello della pop art. Chi invece parte direttamente dalla strada, come Mimmo Rotella (i manifesti strappati del ’57), Franco Angeli e Giuseppe Uncini che, insieme a Mario Schifano, si lascia suggestionare della portata innovativa del cemento armato.
Infine, come non considerare il gran merito di Mario Ceroli, che da una parte si dedica alla citazione còlta del passato (I mobili nella valle, oltre che riportare il medesimo titolo, ricordano quelli di de Chirico), dall’altra si fa interprete della frammentazione tipica del postmoderno: sagome di legno i cui gesti bloccati, sembrano voler, in qualche modo, fermare il tempo per un secondo.
È, anche questa, ricerca di una nuova spazialità, che nella stagione dei monocromi (1958-61) si era espressa come un tentativo di ridurre la rappresentazione pittorica ai minimi termini. Un tentativo che sembrava nascondere l’esigenza di uscire dal “caos” generato dall’Informale, ormai a suo compimento. Più tardi fa la sua prima comparsa anche l’arte ambientale di Marotta (Natura modulare, 1965) e Mattiacci (Tubo metallico – colore giallo Agip, 1967). Tra il 1964 e il 1968 s’inaugura infatti, una nuova stagione, quella che vede un recupero della creazione artigianale, del quale si fanno portavoci Pascali, Tacchi, Ceroli, Patella, quest’ultimo costantemente alla ricerca di nuovi modi di visione e primo ad usare la macchina da presa con intenzioni estetiche.
Siamo ormai agli sgoccioli della parabola romana. Nella mostra della ‘67 Fuoco – Immagine – Acqua – Terra sono esposte opere che sconfinano i generi tradizionali: si predilige l’installazione alla pittura e alla scultura, si scelgono materiali deperibili, non propriamente artistici. Si preannuncia l’arte povera. La scuola è al suo esito e compimento. Ciò che resta è lo spirito di questi artisti, capaci di porsi in alternativa alle logiche capitalistiche e in grado ci cercare ancora una possibile via d’uscita.
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CE STA MAMBOR CE STA, PURE CON BEI QUADRI
e renato mambor? non c'è? ancora oggi realizza delle opere magnifiche