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Que viva la fotografia!

di - 2 Febbraio 2014
Attraverso 72 fotografi di undici Paesi diversi, “América Latina 1960-2013” ci svela la grande diversità della pratica fotografica tra novità e lavori fondamentali. Ad accoglierla la Fondation Cartier pour l’Art Contemporain di Parigi, in collaborazione con il Museo Amparo a Puebla (fino al 6 aprile). L’esposizione offre nuove chiavi di lettura della fotografia sudamericana dal 1960 ai nostri giorni, lungo tre generazioni di artisti, attraverso una vasta gamma di supporti come la stampa offset, la serigrafia, il collage, la performance, ma anche video e installazioni. Il percorso, che si divide in quattro sezioni; i territori, le città, informare-denunciare, la memoria e le identità, tocca altresì temi come il multiculturalismo, le fratture etniche, la povertà, la violenza e certo i desaparecidos, ovvero la sparizione forzata di oppositori attivi ai regimi dittatoriali che si sono succeduti nei vari paesi del Sudamerica: è il caso nel 1964 del Brasile, nel 1973 in Uruguay e in Cile, fino al 1983 in Argentina. Il Sudamerica appare qui come un prisma in grado di rifrangere, riflettere e rompere la luce nei colori dell’arcobaleno, in cui la forza delle immagini esposte fa da corroborante, stimolando questioni diverse.
Una domanda però è d’obbligo: esistono canoni che identificano questa fotografia in quanto sudamericana, oppure l’omogeneizzazione galoppante dei modelli di rappresentazione coinvolge anche questa parte del mondo? Per cercare di capirci meglio non si deve risalire molto indietro, infatti si inizia a parlare di fotografia sudamericana e a delinearne la sua storia solo nel 1978, quando ha luogo il primo colloquio sulla fotografia latinoamericana a Città del Messico. Questa è stata una delle prime attività di unione di varie realtà, prima occasione per molti fotografi di quindici Paesi diversi, di ritrovare punti comuni, grazie alle affinità linguistiche e malgrado le tante altre diversità. Tra i partecipanti era presente anche Pablo Ortiz Monasterio, oggi in mostra a Parigi.
Si inizia quindi a parlare di foto della America Latina ma soprattutto di unità. L’America Latina diventa campo di battaglia per quei fotografi che si oppongono, fra l’altro, ad una visione esotica ed eurocentrica, che riproduce paesaggi e abitanti idealizzati del cosiddetto Nuovo Mondo. Il loro obiettivo è, invece, una fotografia di denuncia, documentaria, antropologica, finanche concettuale, raramente astratta, spesso al servizio della strada, della popolazione emarginata.
Uno dei temi forti della mostra, oltre a quello dei desaparecidos, è la ricerca dell’identità precolombiana, nell’intento di recuperare e conservarne la memoria. Questa si esprime attraverso reportage su minoranze etniche spesso relegate in territori rurali, in cui le difficili condizioni di adattamento li spingono ai limiti della sopravvivenza. Sono riportate realtà talmente marginali, lontane dal nostro quotidiano da sembrare surreali, difficili da cogliere in tutta la loro verità. In questo contesto risalta la bella serie di foto sul popolo Yanomami, ovvero esseri umani in italiano, dell’Amazzonia brasiliana realizzata da Claudia Andujar (1931, vive in Brasile), e interessante è To Be Continued… (Latin American Puzzle), un enorme puzzle murale di Regina Silveira (1939, vive in Brasile) realizzato con foto di riviste e guide turistiche, denuncia diretta agli stereotipi più diffusi dell’America Latina. Molto inquietante è invece il reportage Esquinas Gordas di Rosario López (1970, vive in Colombia), che ritrae dei blocchi di cemento colati dagli abitanti del centro di Bogotà per riempire gli angoli delle strade così da evitare il soggiornare dei senza tetto. L’esposizione investiga relazioni particolari come tra arte e letteratura, o tra testo e foto, vedi la fitta presenza di tipografia urbana, una relazione determinante per gente spesso messa a confronto con grandi cambiamenti politici e sociali, come è accaduto negli anni ’60: se la fotografia registra la realtà il testo estende il senso dell’immagine.
Gli accostamenti tra testo e immagine hanno diversi precedenti storici, come dimostra il lavoro di Luis Camnitzer (1937, vive a New York), pioniere della fotografia concettuale, presente con Christimas Series, dal titolo ironico e simbolo della colonizzazione, che ci parla di cultura identitaria, denunciando l’ingerenza degli Stati Uniti negli affari latinoamericani negli anni ’60 e ’70. «Nel periodo di repressione politica la credibilità della fotografia, certo prima di photoshop, era molto importante. Questo mistura di realtà, con credibilità e documentazione, anche se ipotetica, fu molto utile nel processo di concettualizzazione. Nell’uso concettuale c’è sovrapposizione tra idea e realtà, questo insieme crea un’evocazione documentaria, che è molto più identitaria della cultura dell’America del sud di falsi stereotipi di un’epoca passata», afferma Luis Camnitzer.
Notevole ancora è il lavoro di Carlos Altamirano (1954, vive in Cile), un miscuglio di pittura, di foto su foto, o materiale come il catrame dove il testo viene usato come immagine, tutti elementi che contrastando rendono energia all’opera. Infine, tra le tante storie sui desaparecidos, interessante il lavoro di Marcelo Brodsky (1954, vive in Argentina), che si sviluppa intorno ad una vecchia foto di classe del 1967, dalla quale riaffiora il ricordo della sparizione del fratello Ferdinando e di altri alunni presenti nella foto. Nel 1996 Brodsky ritorna nella stessa scuola che frequentava da ragazzo per raccontare la sua storia agli alunni di oggi, per rendere presente l’assenza. Altre note positive vanno al road movie Revuelta(s) (film, 2013 – colore, 140 minuti) di Fredi Casco e Renate Costa, che hanno intervistato 30 artisti presenti alla mostra, e al catalogo che riunisce 500 immagini su 352 pagine con testi analitici che permettono di approfondire i linguaggi visivi di questo continente.
Da Parigi, dal 15 maggio fino al 17 settembre, la mostra si sposterà al Museo Amparo a Puebla in Messico.

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