Due sole le opere presentate da Candice Breitz in questa occasione: Diorama (2002) e Soliloquy Trilogy (2000). Nella prima, una sala è arredata come un salone domestico, con tanto di tappeto, poltrone e televisori sparsi ovunque. Sugli schermi, diffusi senza interruzione a circuito chiuso, sono proiettati brevi spezzoni della leggendaria soap opera Dallas. Lâeffetto è allucinatorio: i personaggi si muovono come automi e le loro parole si trasformano in un brusio incomprensibile. Nella seconda sala sono proiettati tre film âDirty Harry, Le steghe di Eastwick e Basic Instictâ in cui lâartista ha selezionato e assemblato esclusivamente le scene in cui compare il protagonista, rispettivamente: Clint Eastwood, Jack Nicholson e Sharon Stone. Al punto che quando i dialoghi alternano campo e controcampo, al secondo viene preferito lo schermo nero.
In entrambi i casi il filo narrativo è spezzato, colmato dai ricordi e dalla cultura visiva dello spettatore; si tratta, del resto, di soggetti universali. La Breitz fa parte della generazione della postproduzione âcome ricorda Nicolas Bourriaud, direttore del Palais de Tokyoâ anche se la pratica del copia e incolla, del cutting e del sampling le è stata ispirata dalla scrittura poetica di Brion Gysin. Questâultimo infatti negli anni cinquanta âtra neo-dada e beat generationâ creava poesie ritagliando e componendo articoli dal giornale, come fa la Breitz con le immagini in movimento.
Tuttavia la posizione dellâartista verso il suo materiale âcinema, televisione, soap-opera, clipâ resta ambigua, sospesa tra cannibalismo e indigestione: da una parte vi aderisce in modo viscerale, dichiarandosi âfan assolutaâ dei personaggi e soccombendo al loro fascino.
Al punto che, aggiunge, âla resistenza alla fusione fra arte e industria della cultura è naif, se non futileâ. Dallâaltra: âProvo a resistere attraverso il mio lavoro alla consumazione passivaâ. In altri termini, attivando lâattenzione dello spettatore, mira ad imbastire âun pensiero politico o un dialogo criticoâ. Ma forse, è proprio questâultimo passaggio a sfuggire.
Siamo lontani sia dai tempi della Pop art, in cui lâutilizzo delle immagini di consumo era di per sĂŠ rivoluzionario, sia dal pastiche postmoderno, che trasgrediva la linea di confine tra cultura bassa e alta. Un artista che oggi riutilizza la cultura pop prodotta dai mass media deve trovare, per non restarne schiacciato, una strategia efficace che smonti la macchina e ne mostri il funzionamento. CosĂŹ fanno da anni i visual studies, per cui le dinamiche della storia e della memoria collettiva sono veicolate dalla stessa produzione di immagini, Dallas incluso. Il rischio? Quello di produrre un lavoro in cui tra il mondo televisivo e quello dellâarte contemporanea sussita un confine troppo labile. Considerarsi âun sintomo del proprio tempoâ, secondo quanto da lei stessa dichiarato, è umano. Perseverare è diabolico?
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riccardo venturi
mostra visitata il 10 maggio 2005
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