L’esposizione parigina si concentra sulla genesi dell’opera di
Alexander Calder (Lawnton, 1898 – New York, 1976), di cui i
mobile degli anni ’30 sono il risultato logico di una ricerca imperniata su segno e movimento. All’inizio e alla fine del percorso, due video del
Circo, del quale vengono mostrati anche i materiali restaurati, ma senza il soffio di vita che solo le mani dell’artista potevano liberare.
Il suo è un lavoro concettuale e allo stesso tempo intriso di poesia, di cui occorre sottolineare la lucidità e la coerenza, che ne fanno un corpo unico dalle molteplici dipendenze interne e in relazione con la storia dell’arte. Come
Schwitters, raccoglie ciò che non è utile e fabbrica un universo dove la stessa scelta dei soggetti, dal circo ai suoi amici artisti, passando per l’esotismo primitivo di Josephine Baker, pare indicare una sottile critica sociale.
Calder compie nei confronti del materiale industriale un’impresa di détournement di matrice situazionista. E poi, in un secondo momento, cosa fa se non creare
situazioni con chiaro intento terapeutico nei confronti di una realtĂ alienante? I tempi sono diversi e certo il carattere performativo del
Circo si traduce in contemplazione, inattivitĂ da parte dello spettatore.
E lo stesso vale per tutte le sculture in movimento che, attraverso una dialettica tra forma e movimento, acquisiscono una dimensione temporale (non) concretizzandosi anch’esse in situazioni.
Lo shock di Calder all’incontro con
Mondrian nel 1930 è probabilmente da ridimensionare nel significato, sebbene nelle forme l’influenza sia evidente. Infatti, ciò che colpì l’artista americano sembrerebbe sia stata la pallida applicazione dei principi neoplastici alla realtà dell’architettura del suo studio. Certo fu parte del gruppo Abstraction-Création, ma le figure arrotondate sono una negazione dei principi di Mondrian, e lo stesso vale per il movimento naturale di queste in opposizione all’immutabilità rassicurante della stasi. Le forme in movimento sono invece riferibili all’arte costruttivista – di cui però pare Calder non conoscesse l’esistenza durante l’esperienza parigina – e la tensione, il dinamismo delle sue sculture hanno un antecedente nell’opera di
Rodchenko.
Il segno dello statunitense è archetipo e narrazione dell’atto creativo e, nel corso del tempo, si riduce a questo. Segno e vibrazione, un’onda che si ripercuote nel tempo, mentre la dialettica fra materia e moto sprigiona un’energia che attraversa lo spazio circostante.
Nuovi cambiamenti sono presenti nelle forme archetipiche di
Requin et balene: ora l’artista fa uso massiccio del legno, e le opere sono ormai lontane dal riduzionismo alla purezza astratta e razionale di Mondrian o alla riduzione alla forma-idea di
Brancusi. Le forme biomorfiche sono invece di carattere linguistico di tipo surrealista, e qui ci si riferisce a
Miró. Si tratta di una riduzione a una purezza primitiva, che si situa nell’infanzia e che si sviluppa attraverso il gioco, nella possibilità dell’errore di cui anche l’azione del circo è una prova.
Infine, occorre sottolineare come lo spirito ludico – in opposizione al gesto performante e utile -facciano di Calder un antesignano dell’Arte povera. Con le ultime opere in mostra, infatti, si chiude il cerchio iniziato con gli schizzi di animali.