In due sezioni separate e contigue, al Jeu de Paume sono esposte la serie completa di fotografie facente parte dell’epico libro
The americans e una manciata di scatti realizzati a Parigi da
Robert Frank (Zurigo, 1924; vive a New York e Neuschottland) tra il 1949 e il 1952, alcuni dei quali per la prima volta visibili al pubblico. Inoltre, in mostra vi sono, oltre a due documentari, il primo film girato da Frank,
Pull my daisy , ritratto di una generazione a venire; e
True story, in cui i ricordi sono condensati in una sorta di sublimazione della morte attraverso la memoria.
Una rassegna, quella parigina, che tende a evidenziare l’approccio cinematografico alla fotografia, al fine di celebrare il rapporto di Robert Frank con la settima arte, alla quale ha consacrato buona parte della propria carriera. Instancabile sperimentatore, il cinema gli ha permesso di affrancarsi dall’ordine dell’intuitivo per dedicarsi a progetti di più ampio respiro.
Frank fu influenzato dalla fotografia documentaristica di
Walker Evans, dal quale si distanzia sostituendo alla nobilitazione dell’uomo un atteggiamento dissacratorio nei confronti della società. Non condanna le persone, sono queste a essere condannate. In
The Americans ogni scatto, sintatticamente autosufficiente, risulta inserito in una composizione più ampia, rimasta immutata fin dalla prima edizione francese del 1958, suggerendo così l’idoneità di un riferimento a un progetto corale. La bandiera americana funge da incipit di sequenze narrative che si dipanano attraverso climax e stasi.
Lo “sguardo straniero” di Frank è rivelatore di uno stato di cose di cui il soggetto è inconsapevole. Come l’ospite di
Teorema di
Pasolini, la sua coscienza politica s’insinua nella terra della democrazia e della libertà, rendendone manifesto il torbido, l’ambiguo. Così, la finestra ha una funzione introspettiva: specchio della coscienza, non ci si vede attraverso ma serve a interrogare chi osserva.
Il silenzio circonda tanto il diseredato quanto il borghese, e le uniformi sono segni sociali svuotati di significato. Ciò che resta è il corpo impacciato in mezzo alla folla, avvolta da un velo di compassione, in cui l’angoscia di figure reificate sembra parafrase Baudelaire: chi non sa popolare la propria solitudine nemmeno sa esser solo nella folla affaccendata. Atto politico cosciente, la poeticità di questi scatti indefiniti non esclude la ricerca di una verità, che non può pertanto restare immune dalla propria soggettività.
Gli scatti parigini, in cui si possono già intravedere
in nuce gli stilemi che distingueranno Frank dalla fotografia europea coeva e che caratterizzeranno la sua pratica artistica, risultano meno convincenti: sono fortemente legati alla tradizione, se paragonati agli innovativi lavori americani.
Dal momento in cui ha deciso di abbandonare la fotografia per dedicarsi al cinema, l’arte di Frank si è sempre più fusa con la vita. Il suo è un cinema che ha in comune la forma del diario con un’altra figura fondamentale dell’avanguardia newyorkese,
Jonas Mekas. Una predisposizione ad alcuni elementi di stile del realismo poetico, in cui significati e significanti si fondono e il sociale viene interiorizzato e rielaborato attraverso vicende personali.
Alla liricità delle immagini corrispondono le parole dell’autore: “
È bello vivere, ma la vita non è altrettanto bella”.