Anne Biroleau presenta 320 delle oltre duemila fotografie provenienti da oltreoceano e raccolte al Département des Estampes et de la Photographie dell’istituzione parigina a partire dal 1971, anno dell’esposizione
Photographie nouvelle des Etats-Unis. Il percorso espositivo è diviso in dieci sezioni tematiche, nell’intento di offrire un panorama strutturato, benché non necessariamente completo della fotografia americana negli anni ‘70.
Il titolo della prima sala,
Des précurseurs, suggerisce che, nonostante l’atteggiamento rivoluzionario nell’uso del mezzo e nell’approccio al soggetto, i cambiamenti sono in seno a una tradizione che questi fotografi non cessano di rinnovare. Nell’opera di
Walker Evans, a un atteggiamento documentaristico volto a captare il rapido mutamento di un Paese, corrisponde un’approccio concettuale al mezzo da cui deriva un commento lungimirante su una società futura in cui, negli spazi deliranti e uniformi della città, non sarà più semplice distinguere tra realtà e immagine.
Nella sezione dei
Portraits,
Diane Arbus ribalta i canoni della fotografia umanista di tradizione europea. L’uomo non esiste, bensì esistono gli uomini, e questi non sono tutti uguali. Contrario solo in apparenza è l’atteggiamento di
Gary Winogrand. Fra le
Rues, il suo atteggiamento dissacratorio nei confronti del soggetto sembra voler suggerire che non ci sono differenze tra uomini e donne, giovani e vecchi, uomini e oggetti. Come le fotografie delle
Mondanités di
Larry Fink e
Bill Owens, queste immagini sono allo stesso tempo recita e commento sulle dinamiche sociali dell’esistenze contemporanee.
Sotto il titolo
Les marges, nelle fotografie di carattere intimista di
Larry Clark, i giovani soggetti, junky e disadattati, rimangono avvolti da un alone di eroismo, proprio per la capacità di rievocare e celebrare allo stesso tempo vita e morte. Le fotografie di
Burk Uzzle fanno parte di
Geométrie/Espaces: la figura dell’uomo perde di peso e la silhouette che ne rimane, nella sua solitudine, risulta elemento di disturbo alla nettezza di uno spazio limpido nella sua complessità.
In
Nature vengono mostrati lavori di
Lee Friedlander, figura imprescindibile di questi anni proprio per la trasformazione dell’errore tecnico in elemento peculiare, che svolge un lavoro documentario sugli spazi naturali che caratterizzano il Nordamerica, una catalogazione che nasconde forse un’inquietudine sull’avvenire del Paese. Alle sue fotografie sono collegate quelle di
Lewis Baltz nella categoria
Paysage minimal. La poetica del detrito, prerogativa di una società di consumo, qui si rigenera attraverso i resti di un paesaggio desolato. Le fotografie di
Kenneth Josephson continuano nel solco della fotografia concettuale e formalista.
L’ultima sezione,
Le miroir obscur, sembra collegarsi da un lato alla fotografia pittorialista e dall’altro anticipare la
photographie plasticienne: collage, sovraesposizioni e ombre risultano strumentali a un commento sul Paese.
La specificità della fotografia americana di questo periodo consiste in un atteggiamento antitetico rispetto alla fotografia umanista. Ma non corrisponde a una concezione nichilistica e misantropica dell’esistenza, bensì alla presa di coscienza dello scorrere del tempo e alla conseguente presenza costante della morte.