Alberto Giacometti e Henri Cartier-Bresson si sono incontrati a Parigi negli anni ’30, frequentandosi regolarmente per un lungo periodo. Questa “giustificazione storica” potrebbe bastare da sola per sviluppare uno studio in parallelo dell’opera dei due artisti.
Tuttavia, non appena si accede alla prima sala della mostra organizzata presso la Fondation Henri Cartier-Bresson, si percepisce all’istante, prima ancora di comprenderne il disegno razionale, quell’indefinibile unità d’intenti, quella “communauté des regards” di cui parla Agnès Sire, direttrice della Fondazione.
Il dialogo tra lo scultore e il fotografo, cementato da un’amicizia che li porta ad incontrare le stesse persone e a vivere gli stessi luoghi, si sviluppa soprattutto sulla comune comprensione del fare artistico che vedeva nell’arte un “pretesto per fare arte”, come riassume felicemente Cartier-Bresson, o “un mezzo per vedere” come sostiene Giacometti. La ricerca dell’istante perfetto, mossa da quella visione interiore viva ed effimera (“l’apparizione, diceva Giacometti – di tanto in tanto mi sembra di poterla afferrare”), fonda la loro disciplina e quel “metodo” dell’instant décisif che frammenta il visibile in immagini ed oggetti meravigliosamente essenziali.
A partire da questi assiomi di base, l’esposizione sviluppa cinque temi principali: Gli anni surrealisti (1930) e L’istante decisivo al primo piano; Ritratti e autoritratti e Paris al secondo, mentre il terzo comprende gran parte dei ritratti fotografici che Cartier-Bresson ha dedicato a Giacometti.
Nel percorso proposto da Tobia Bezzola, direttore del Kunsthaus di Zurigo e curatore della mostra, l’intento più prettamente storico e quello estetico vanno di pari passo. Nella prima sala, il confronto nasce dalle corrispondenze tra il gioco severo di luci e ombre tipico delle fotografie dei viaggi di Cartier-Bresson degli anni trenta e le angolature rudi delle sculture in movimento di Giacometti. Come se “entrambi volessero credere alla promessa surrealista secondo la quale l’effimero si cattura sotto forma d’immagini interiori fugaci ma perfettamente compiute” (Bezzola).
Gli sguardi dei “personaggi in situazione” disegnati da Giacometti e quelli impregnati di “silenzio interiore” fotografati da Cartier-Bresson ritmano lo spazio della seconda sala, intimamente dissonanti eppur armonizzati dal dialogo che le differenti tecniche artistiche instaurano. Jean-Paul Sartre, Henri Matisse, Jean Genet, Igor Stravinsky
Sono i ritratti del 1945 e 1946 dedicati da Cartier-Bresson all’amico scultore che concludono il percorso dell’esposizione. L’immagine emblematica di Giacometti sotto la pioggia, sintesi di quel rapporto vero e senza fronzoli che nutrì il loro quotidiano, sigla allora quella comune necessità di “veder sorgere qualcosa di sconosciuto ogni giorno nello stesso viso (…) il più grande dei viaggi attorno al mondo” (Giacometti).
emanuela genesio
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