Incentrata soprattutto sugli ultimissimi lavori, la mostra documenta bene la produzione di Michal Rovner dal 1993 a oggi, passando per le installazioni che “infestavano” l’indimenticabile padiglione israeliano alla Biennale del 2003.
Sin dai suoi esordi, l’artista applica alle immagini video quel principio di sottrazione che contrassegnerà in seguito tutta la sua ricerca. “Ogni video è il risultato di un processo di decantazione, un processo in cui sottraggo lentamente ogni dettaglio per attingere l’essenza delle cose”. Sottrazione della narrazione e di ogni elemento drammatico innanzitutto, affinché si manifesti quella pulsazione temporale propria del video. Ancora, assottigliamento della realtà e degli elementi del mondo esterno, nonché della memoria: gli uomini sono ridotti alla loro ombra, e i paesaggi alla sola linea dell’orizzonte. “Le persone amano l’informazione. Al contrario a me piace eliminare ogni tipo di informazione sulle mie opere”. Senza dimenticare l’apparente semplicità del trattamento tecnico delle immagini –dalla registrazione al montaggio– come pure l’esposizione discreta del dispositivo di proiezione e in generale del medium tecnico. Al punto che lo spettatore confonde facilmente la superficie dello schermo a cristalli liquidi con la tela di un quadro.
Tuttavia, quanto viene perduto in termini narrativi, rappresentativi o tecnici, viene guadagnato in espressività. Lo dimostrano bene le immagini del silenzio – da quelle del deserto a quelle del Mar Morto – che trovano una forma e una presenza nella loro stessa texture. Ne viene anche però, una sottile disperazione, espressa dalla frizione tra la fluidità della scrittura video e la consistenza del supporto.
“Si potrebbe analizzare tutto il mio lavoro come un’interrogazione sull’esistenza umana, sulla fragilità di ogni cosa, su quanto sia facile far scomparire un essere o un oggetto”. Gli uomini, quando non sono ombre colorate, presenze evanescenti e senza peso, si trasformano in microbi osservati al microscopio. Rinchiusi in una provetta da laboratorio, si agglomerano in singolari conformazioni fluide, come per effetto di una reazione chimica (Datazone, Culture Tables, 2003). Altrove le silhouttes di migliaia di ombre si tengono la mano e procedono lentamente su lunghe file orizzontali, secondo una coreografia minimalista che finisce per mettere in movimento le quattro pareti su cui sono proiettate (Time Left, 2002).
E’ un’immagine della migrazione sotto forma di scrittura. Quasi che queste presenze umane fossero ideogrammi di una lingua sconosicuta. La stessa che Rovner indaga in Cabinet Stones (2005), in cui file di figure umane sono proiettate sulle pietre o sulle pagine di un libro, come tavole di una legge indecifrabile. Si è detto che se la Rovner fosse una scrittrice, i suoi testi somiglierebbero a quelli di Samuel Beckett. E nelle sale del museo si avverte aleggiare la presenza del drammaturgo irlandese, disperso tra le piccole ombre che scorrono incessanti e metodiche.
riccardo venturi
mostra visitata il 15 ottobre 2005
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