Aspettando la mostra autunnale del grande Paul McCarthy, prevista in ottobre, il Moderna Museet festeggia una delle glorie nazionali della scultura svedese, dedicando a Lars Englund (Stoccolma, 1933) una larga retrospettiva che copre il suo intero arco creativo, dai primi anni Sessanta fino ad oggi. Scarsamente rappresentato in Italia -chi ha lunga memoria lo ricorderà per le presenze alla Biennale di Venezia del 1976 e del 1978- il suo lavoro è stato invece promosso, soprattutto dagli anni Settanta e Ottanta, in capitali estere come Parigi, New York e Varsavia.
L’omaggio del Moderna Museet, con tutto il sapore di una giusta consacrazione alla carriera, presenta con chiarezza filologica la visione globale del mondo di Englund. Un approccio alla vita delle forme, il suo, che parte da attente riflessioni sugli stati di organizzazione della natura, dalla più piccola forma del vivente fino alla microdimensione molecolare. Ogni singola creazione, aldilà dello specifico esito formale, pare allineata da un unico principio informatore: la generale tensione all’ordine sistemico e architetturale. Ordine creato, dialetticamente, a partire da organizzazioni strutturali complesse che, pur nel rispetto di una serie di vincoli, sviluppano spesso composizioni intricate. Come nei puzzle di poliammidi colorati Aquarelife, in cui sembra agire la geometria generativa dei frattali. Una linea di pensiero analitico non rigorosa, dunque, attraverso la quale Lars Englund indaga i complessi rapporti di forma e di spazio.
Dopo le prime indagini sul mezzo pittorico di inizio Sessanta, l’artista sposta subito l’attenzione sulla terza dimensione creando forme che poco hanno a che fare con la visione stereometrica della Minimal americana. I Volumes, camere di gomma gonfie d’aria, con il loro aspetto rotondo e panciuto, fanno il verso rigidi parallelepipedi statunitensi, e i Pars pro toto, che galleggiano a mezz’aria, sono strutture modulari in plastica simili, nello sviluppo spaziale, alla catena proteica di una molecola di DNA. Strutture che si aprono alla fantasia e agli stimoli percettivi, così come i Relative, in fasce di carbonio, e gli Stabiles in legno -degli anni Ottanta- in cui rimane influente il gioco di relazioni e di equilibri, apparentemente precari, delle parti col tutto.
La sperimentazione di materiali industriali più vari e il loro impiego in base alle qualità tecniche -flessibilità, elasticità, o rigidità- sono una costante di tutta la ricerca dell’artista. Per il voluminoso e leggerissimo Borderline (2005), ammasso di enormi profili sferici, Englund si serve di sottilissime bacchette colorate in fibra di carbonio che, intrecciate l’una con l’altra, ridisegnano lo spazio. In un certo senso lo spazio pare quasi materializzarsi a discapito della scultura, che è percepita soprattutto per l’assenza di peso e per il suo valore immateriale.
Altro pezzo forte della mostra, degno della verve progettuale Archigram, è l’utopica architettura di Spatial Surface Support Structure (2005): opera concepita nel 1968, e realizzata -su commissione dello Huddinge Hospital di Stoccolma- solo nel 1974; una ricostruzione che ben sottolinea la lezione poco ortodossa della minimal di Englund. Ad essere in gioco, nel suo lavoro, è pur sempre lo stimolo alla dimensione mentale, secondo un uso però tutto singolare e disinvolto del “costruire”.
alan santarelli
mostra visitata il 28 giugno 2005
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