Quattromila bobine di materiale originale è quanto il MoMA è riuscito a restaurare e presentare al pubblico un anno fa con Andy Warhol: Screen Tests, al PS1 di New York. Riveduta ed arricchita, la mostra è arrivata a Berlino con il titolo Andy Warhol: Motion Pictures, nuovo episodio della collaborazione avviata tra il Kunst-Werke e il MoMA da otto anni.
Come a New York, anche a Berlino viene presentata una selezione di quelli che Andy Warhol intitolava Screen Tests, specie di audizioni filmate, in cui si chiede all’attore di interagire per qualche minuto, liberamente, con la cinepresa.
Tra il 1964 ed il 1966 Warhol produce così ben cinquecento ritratti cinematografici: per pochi minuti piazza davanti all’obiettivo i volti a suo avviso più interessanti, senza dar loro alcuna linea direttiva. A differenza di New York, a Berlino vengono presentati anche i primi Silent films, girati fra il ‘63 ed il ‘64: Sleep, Empire, Blow Job, Kiss, Harry Geldzahler e Eat.
I Silent Films e gli Screen Test sono tutti muti e rallentati. Nonostante Warhol filmasse in sonoro, con un cinepresa dalla velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo, faceva poi sviluppare le sue pellicole ad una velocità inferiore, la stessa dei primi film muti.
Film e test si relazionano splendidamente. L’interazione riesce al meglio nella prima saletta, dove vengono combinati Sleep ed Empire con alcuni dei videoritratti. Da una parte le vedute notturne, che descrivono la dimensione del buio, la sua vulnerabilità, la solitudine, la stasi, il raccoglimento. Dall’altra, le immagine vitali e diurne: il volto di James Rosenquist che ruota velocemente, quello di Salvador Dalí ripreso a testa in giù, mentre muove gli enigmatici occhi. Un confronto tra film che prendono spunto da arti fra loro apparentemente lontane: i ritratti come “lunghe” fotografie alle quali è aggiunto l’elemento temporale, e veri e propri film in cui il movimento è l’elemento chiave.
Dalla loggia, che regala una suggestiva vista dall’alto sulla sala principale, situata al livello più basso dell’edificio, è possibile gettare uno sguardo sull’universo di Andy Warhol, in tutti i suoi molteplici aspetti: c’è il pittore, nelle grandi dimensioni e nello stretto taglio di questi video-ritratti, che ricordano Marilyn e Mao, le sue più celebri serigrafie; c’è l’amico delle star, vicino a personaggi quali Dennis Hopper, Susan Sontag, Salvador Dalí; c’è il creatore di icone, riassunto in quattro delle sue 13 most beautiful women e con Baby Jane Holzer, presente in numerosi schermi; c’è l’artista amante della provocazione, nei baci fra eterosessuali, omosessuali e partner di razze diverse. E c’è infine l’uomo. Di lui si riconosce la grande capacità/sensibilità di riuscire ad astenersi, di restare in disparte, lasciando esprimere ogni soggetto liberamente.
Qualcuno, davanti a quell’obbiettivo puntato, è rimasto personaggio, con tutta la teatralità, arroganza o sensualità del caso; qualcun altro ha invece tolto la maschera, lasciando cadere copiose lacrime; chi ha espresso chiaramente imbarazzo e chi, al contrario, la sua sconfinata vanità. Ed è lì che il Warhol voyeur non abbassa la cinepresa, indugiando per fini personalissimi.
Nessun autoritratto in questa carrellata infinita di volti. Ciò nonostante, si ha la sensazione che questa mostra, più di molte altre, metta veramente a nudo il complesso artista americano.
micaela cecchinato
mostra visitata il 12 maggio 2004
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