Categorie: arteatro

arteatro_dossier | Tate Triennial of New British Art | Londra, Tate Modern

di - 25 Luglio 2006

Costituitosi sotto l’ampio termine di appropriation, l’ambizioso programma di performance per la Tate Triennial of New British Art, diretto da Beatrix Ruf, si è presentato come un assortimento eterogeneo e accidentato di interventi. Questa instabilità si è mostrata soprattutto in relazione all’arena commissionata all’artista Pablo Bronstein. Quattro torri alle estremità di un quadrato dipinto in terra avrebbero, infatti, dovuto demarcare lo spazio scenico, ma l’intervento è stato largamente ignorato dai performer. Non sorprende che nell’assenza di una vera e propria direzione curatoriale e di un supporto architettonico adeguato, le performance più interessanti sono state proprio quelle che hanno sperimentato e indagato più direttamente lo stesso “stare in scena”.
Per la performance Regeneration, Daria Martin ha eretto un palco modernista con tre grandi schermi da proiezioni tra i quali si staglia la figura dell’arpista sperimentale Zeena Parkins. Ad affiancare la sua musica, immagini sensuali del mare, di pellicce, diamanti, corpi assopiti e disegni astratti incalzano l’una sull’altra, a creare un paesaggio di segni che rimandano a un inconscio mitico. Rivisitando temi a lei famigliari come l’individualismo romantico contro il progresso collettivo, la Martin sembra riciclare le immagini dei suoi precedenti film per trasformarle in un sogno agitato e turbolento. Scivolando tra illustrative e discordanti sonorità, Zeena Parkins pare invece procedere a un’opera disturbante, che stride con la soffusa progressione delle immagini soprattutto quando la musica si fa più descrittiva. Nel ricreare il suono di una corsa nella foresta (così come viene proiettata sullo schermo), Parkins colpisce ripetutamente e violentemente il microfono con un grande foglio di dura plastica.

Esempi come questi rivelano quanto il delicato equilibrio delle immagini della Martin possa difficilmente reggere il frenetico incedere sonoro. Ma i sogni, si sa, raramente sono armoniosi.
Sia Dara Martin che Marc Camille Chaimowicz hanno scelto l’uso della diapositiva per indagare una condizione interiore, come se ci fosse qualcosa nella dia-proiezione più intimamente legato all’atto del ricordare. Una certa superficiale associazione con le foto delle vacanze, con le moderne strategie di insegnamento o forse con lo stesso autentico atto di illuminare i frammenti del passato. Ed è a partire da questo sguardo frammentato sugli oggetti che Chaimowicz evoca la sua Partial Eclipse. Avvolte nelle sonorità ambient di Discreet Music di Brian Eno, una serie di diapositive proiettate mostrano l’artista a letto con la sua amante, lei scompare, poi alcuni interni, oggetti fetish della loro relazione, e finalmente lo sguardo di questa macchina dei ricordi si accende su di un vaso di vetro su cui è incisa la parola Yours. Nel vaso un unico giglio malinconico, mentre un uomo elegante cammina disegnando un invisibile otto tutto attorno ai proiettori, a tratti proiettando, come nell’eclisse annunciata nel titolo, la sua scura ombra sulle immagini. È un ombra che rimanda all’assenza della giovane donna, che continuamente fa ritorno nelle stanze un tempo abitate e condivise, ma è anche un ombra che occupa gli spazi vuoti della memoria e del ricordo. Tutte queste immagini a dispetto del loro valore sentimentale sono però mostrate con un certo cinico distacco. Come se, pur circondato dalla sua biografia, l’artista dimostrasse la sua totale estraneità. Immagini costruite attentamente, nostalgie disegnate ad arte come per restituire l’aura estetizzante voluta dall’artista. A dimostrare questa artificialità, una voce fuori-campo sussurra: “is this experience qualified and a fiction?”. Rappresentata per la prima volta nel 1981, risulta abbastanza discutibile il criterio con cui questa performance possa rientrare nella così detta New British Art, ma rimane comunque un lavoro di potente evocazione malinconica. Attraverso la più semplice delle messe in scena, Chaimowicz interroga la complessa relazione tra memoria e reale, e crea una soffocante atmosfera di immobilità e pacatezza.
Affatto pacata e immobile è invece l’isterica ilarità di Lali Chetwynd in The fall of man; a puppet extravaganza. Probabilmente la performance più densa di tutta la Trienniale, certamente la più ambiziosa nel tentare di democratizzare lo spazio performativo. Il pubblico pagante è invitato in piccoli gruppi a entrare nello spazio scenico attraverso un proscenio di finti archi. Si trova così di fronte a due diverse performance in cui alcuni pupazzi fatti del più proletario tra i vegetali, la patata, prima rappresentano la cacciata dell’uomo, poi l’utopia Marxista, rispettivamente su di un modello in cartone del giardino dell’eden il primo, e in una neo-classica distesa desolata il secondo.

Ogni atto è annunciato da una danza elaborata dei burattinai e termina nella corale acclamazione di un manipolo di strani personaggi mascherati da animali. Tra intrattenimento popolare e teorie politiche, Lali Chetwynd, investigando la funzione sociale del teatro, mostra una sorprendente abilità nell’accedere all’immaginario collettivo. È proprio questo genere di attenzione a un immaginario condiviso che la curatrice Beatrix Ruf ignora insistendo a voler relazionare i lavori d’arte agli spazi reali e ai processi di appropriazione, invenzione e collaborazione. Ma di contro, sono appunto queste ultime tre performance a essere capaci di trasportare il fruitore in uno spazio altro, fantastico, artificiale, e teatrale, a dimostrare tutta la vitalità della nuova arte performativa Britannica alla Tate Triennial.

link correlati
www.tate.org.uk/britain/exhibitions/triennial
www.heraldst.com
www.victoria-miro.com
www.cabinetgallery.com
www.maureenpaley.com

paul clinton
traduzione a cura di piersandra di matteo


Tate Triennal 2006. 1 March – 14 May 2006
New British Art, Londra, Tate Britain (Pimlico)
a cura di Beatrix Ruf
con il supporto della Calouste Gulbenkian Foundation


[exibart]


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