Una quotidianità strana o una stranezza quotidiana. Nella sala d’Ercole il mondo dei Rom è osservato dall’interno e dall’esterno. Floriano Debar, rom, ex trapezista, artigiano e fotografo. Si diverte ad imprigionare nell’obiettivo la sua famiglia e il mondo in cui vive. Tredici figli, una roulotte, un campo e poco altro.
Un altro obiettivo è puntato sulla stessa realtà: quello di Mario Rebeschini. A fianco al “dilettante”, il “professionista”. Rebeschini è giornalista e fotoreporter che collabora con riviste italiane e straniere, ma è pur sempre un “gagio” (non zingaro).
La mostra nasce dall’incontro tra i due e dall’interesse per lo stesso soggetto con prospettive necessariamente diverse. Debar ci insegna che i gagi non riescono a vedere i sinti (zingari), ma vedono solo la loro stranezza: lo sporco, l’emarginazione, la povertà. Solo un vero sinto, come Debar, ci può far scoprire la normalità del mondo Rom. I bambini che giocano con giocattoli normali, le donne che cucinano con pentole normali o un normale quadretto familiare. Debar ci dice, a proposito delle fotografie di Rebeschini “non è questione di meglio o di peggio, è questione di differenza…Anche a me piace fare foto. Però scatto solo quando me lo sento dentro, perché le foto le devi sentire dentro”.
Le immagini di Debar e Rebeschini sono suddivise in quattro sezioni. Le prime due hanno lo stesso oggetto: la famiglia Debar. Diversa tecnica: povera, semplice, con particolari sfuocati e occhi rossi quelle di Debar, foto virate in blu-scuro quelle di Rebeschini. Il sinto crea ricordi di ciò che è la sua vita, il gagio cercando l’invisibile nel primo incontro con Debar, si ferma all’aspetto superficiale del mondo rom.
Le altre due sezioni contengono entrambe foto del giornalista bolognese. Prima i rom come diversi rispetto a noi “normali”: senza casa, senza lavoro, offesi sui muri, inseguiti dalla polizia. Dopo un matrimonio in cui la stranezza si fa momento quotidiano. Eccentrici e buffi rituali, come i pianti iniziali della sposa, la richiesta di più doni come dote, non cancellano la somiglianza di fondo con un gesto che è proprio di qualsiasi etnia.
Terminata la visita, ci aspetta un’ultima sorpresa: un fiore di carta, che ci portiamo a casa insieme all’inquietudine per la scoperta della nostra cecità verso una realtà che sopravvive così vicino a noi.
Marta Severo
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Ringraziando anticipatamente,
Gigi Garelli
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gigi.garelli@libero.it