Un’esposizione “difficile” nel senso letterale del termine, decisamente americana come stile, atteggiamento e modalità d’intervento.
Trisha Donnelly (San Francisco, 1974) crea un percorso site specific, modificando quasi impercettibilmente lo spazio del Mambo. Aggiungendo muri di cartongesso, rimpicciolendo finestre e corridoi, eliminando alcune strutture. Utilizzando piccoli espedienti per agire sullo spazio con interventi strutturali.
In questo luogo-museo “ricostruito” a suo piacimento, in cui si avverte il cambiamento senza percepirlo in modo esplicito, colloca le sue opere. E lo fa in modo provvisorio e dispersivo, come se fossero appoggiate lì per caso, senza un preciso motivo, in attesa di essere spostate.
Forse è proprio questo il fattore intrigante della mostra. Il fatto, cioè, che i suoi lavori appaiano all’improvviso e dove meno te lo aspetti. Compaiono semplicemente, senza essere annunciati. S
uoni attutiti e ovattati di sottofondo provenienti da casse nascoste dietro un muro posticcio affiancano il visitatore in questo viaggio, una sorta di gioco visivo in mezzo a uno stato di cose suggerito e mai dichiaratamente localizzato.
Nella prima sala, in genere adibita a usi non espositivi, Donnelly proietta un video sulla porta, un altro sul muro e aggiunge un manifestino simil-pubblicitario sulla parete; oppure colloca due piccole foto accanto alle porte dei bagni o, ancora, appoggia grandi lastre di marmo lavorato e inciso alle pareti di un lungo corridoio. Dal macro si passa improvvisamente al micro e viceversa, senza mai abbandonare una situazione di precarietà che lascia talvolta aree bianche, volutamente vuote. Anche la scelta della luce entra a far parte di questo concetto espositivo: i faretti sono bassi, in alcune stanze nemmeno accesi.
La poetica dell’artista è basata sul fatto che una mostra non debba esser necessariamente e completamente decifrata, per lasciare ulteriore spazio alla sfera intima della percezione del fruitore. Quest’ultimo ha così la sensazione che tutto avvenga quasi per caso; che le fotografie, i disegni o i video facciano parte di una narrazione fortuita, composta da eventi accidentali, che suggeriscono ed evocano, senza rivelare. E
che lo costringono a chiedersi, all’uscita, cos’abbia realmente visto di reale o di puramente immaginario.