Raccontare storie per decifrare la difficile realtà dell’emigrazione, invitando a riflettere sulla quaestio del dislocamento. Adrian Paci (Albania, 1969) s’interroga sul ruolo dell’artista in una sorta di summa espositiva in cui il suo lavoro si racconta in modo completo. Uno sguardo sulla realtà che appartiene alla sua vicenda umana, ma che diventa riflesso di una situazione globale. Adrian Paci parla di luoghi geografici che assumono una codificazione esistenziale. Parla di un tema universale che diventa personale nelle opere tratte da vicende dove i diversi racconti vanno a costruire un’unica storia, a partire dalla sua stessa vita e dal primo video, Albanian stories -l’opera che lo ha reso famoso quando, nel 1997, dopo la caduta del governo comunista è costretto a scappare verso l’Italia– nel quale la vocina della figlia racconta con candore le atrocità della guerra. Da quel momento, la condizione forzata di artista esiliato rimarrà un tratto fondante della sua poetica. Paci colma il divario tra estetica e politica con un reportage dalla lettura metaforica, per decifrare l’abbandono, la caduta e la rinascita attraverso l’idea del sogno della riconquista. La codificazione rimane legata all’idea di un nomadismo concettuale insito nella rappresentazione. Motivata è l’ossessione per Pier Paolo Pasolini, anch’egli esule, partito dal Friuli per Roma, per la sua poetica del reale, nel far sì che il cinema sia conforme alla vita vera. Nel pensiero pasoliniano è centrale il senso della casa come luogo sacro, anche quando è una baracca. Per questo Paci costruisce un capanno in sua memoria che definisce “cappella” per rimarcare il rapporto con la chiesa cattolica (Cappella Pasolini). All’interno, sequenze pittoriche tratte dal Vangelo secondo Matteo pasoliniano, dove Cristo è un giovane rivoluzionario.
Adrian Paci sceglie la brutalità tragica del neorealismo italiano mettendo al centro una scena tratta da Mamma Roma, con il figlio della prostituta che richiama l’iconografia di Gesù morente. I colori sono gli stessi del film, toni bassi scanditi da una pittura monocroma, un figurativo severo imparato nelle rigide scuole albanesi. Decameron sigla invece una serie di carte tratte dai fotogrammi del Decameron di Pasolini, che segnano il rapporto tra montaggio e morte che “compie –diceva l’intellettuale- un fulmineo montaggio della nostra vita”. Paci è attento ai poveri, proprio come lo era Pasolini. Lo si vede in Workers, dove mette gli operai in posa eroica, o in Turn on, quando ingaggia disoccupati ad accendere generatori. O ancora in Piktori, capanno che riproduce i chioschi di pittori albanesi che per sopravvivere redigono certificati di morte. Il tema del viaggio ritorna in Home to go, una scultura -calco dell’artista- con il tetto di casa sulle spalle, ribaltato come fosse un paio d’ali, angelo caduto per il troppo peso, tra la fatica dello spostamento e la possibilità di salvarsi. Il ruolo dell’artista si sostituisce a quello dell’esule nel video Believe me I’m an artist, registrazione di un’accusa a Paci di abuso su minori. Un’esplicita dichiarazione su come i codici dell’arte contemporanea siano ancora poco comprensibili per l’uomo comune.
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