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Calusca
Il nucleo centrale di questa mostra è formato da un gruppo di ritratti eseguiti da Calusca nel 2000
Comunicato stampa
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Il 25 marzo 2006, alle ore 18 presso lo spazio Ipogeo 2 del Museo Michetti (MUMI) di Francavilla al Mare (Chieti) si inaugurerà la mostra ”Calusca - impressioni IN VANO” a cura di Guido Giuffrè. L’esposizione, realizzata col patrocinio del Comune di Francavilla al Mare e grazie al contributo del Lloyd Adriatico, rimarrà aperta fino al 23 aprile 2006. Saranno esposti circa 60 quadri di vario formato, tutti inediti e del periodo compreso dal 2000 al 2005. Per l’occasione è stato pubblicato dalla Galatea Editrice un volume a cura di Guido Giuffrè.
dal testo in catalogo:
Incerto consistere
Il nucleo centrale di questa mostra è formato da un gruppo di ritratti eseguiti da Calusca nel 2000. Soltanto due di essi sono dell’anno appena trascorso – e rispetto agli altri non mostrano sostanziali diversità di approccio. Che è approccio, pure nei suoi tratti peculiari, conseguente tanto all’arte europea tradizionale quanto a quella (proteiforme, aleatoria) del tempo nostro.
Il ritratto e l’autoritratto hanno accompagnato la storia della pittura, e la stagione forse più alta (certo la più nota) risale al Rinascimento. Dietro la folta schiera dei moderni (riandando da Van Gogh, fino a Rembrandt) Calusca ha forse larvatamente ricordato gli alti modelli rinascimentali: ad esempio, nel Ritratto mano destra (M.G.), quei maestri (da Francesco del Cossa a Perugino, da Antonello a Memling) che con straordinaria modernità rompevano la gabbia spaziale offrendo quasi tattilmente la mano del ritrattato allo spettatore.
Naturalmente in Calusca l’intento è diverso, e si presta a letture che possono anche eccedere o divergere dai propositi dell’autore. Proprio il ritratto citato, dipinto come la maggior parte degli altri su carta di giornale variamente manipolata, più che un invito al riguardante sembra un’aperta dichiarazione di contenuti: l’indicazione del listino di borsa quale sfera (tacitamente contestata) degli interessi del personaggio: nella specie, e in generale del mondo. Ma anche se Calusca occhieggia talora ai vari suggerimenti della superficie su cui lavora, nella scelta di quel supporto prevale la natura di mero supporto appunto: variegato, maculato, disegualmente ritmato.
E ne nasce qualche considerazione. Intanto una certa relazione con la temperie informale: termine se non onnicomprensivo certo dalle molteplici accezioni – e qui inteso come generico ma pressante coinvolgimento nella materia della pittura (supporto, pigmenti vari), nel gesto del dipingere (da De Kooning a Pollock), nella (destrutturata) struttura della forma; e infine il procedere a macchie, che qui, per il materiale su cui nasce l’immagine, somigliano a strappi. Da Rotella a Sarnari, per restare nella sfera italiana odierna (da oltre cinquant’anni aperta come mai prima a influenze esterne), gli strappi hanno più di un precedente, ma Calusca non ha rapporto né con l’uno né con l’altro degli artisti richiamati: Rotella postulava in accezione ripetitiva e sopravvalutata rapporti con la pop, più che con l’informale; Sarnari, maestro riconosciuto, nelle cosiddette cancellazioni compie interventi sottili quanto complessi – che la squisita pittoricità non sempre sottrae alla raffinata alchimia intellettuale.
In tanti di questi ritratti (W.B.; E. Cuccia; i vari Mario Sironi) Calusca accosta più che mai l’informel: tanto spazio e preponderanza vi hanno la tache, il raschiamento, impeto senso e gusto della materia cromatica come tale, fino allo sconfinare e quasi titillare appunto l’informe – sia pure in magistrale padronanza della forma. La carta stampata vi affiora come scheletro da cui è strappata la carne: sanguinante nel Cuccia, annegata e soffocata nel Sironi I.
Ma già i puntuali riferimenti dei titoli dicono come l’intento di Calusca sia tutt’altro. Gli artisti informali distruggevano o ignoravano il rapporto che da secoli il pittore aveva stabilito e coltivato col mondo (non soltanto delle forme) – per affondare e scavare in una dimensione soggettiva non di rado restia ad ogni comunicazione. Per Calusca invece il rischio è semmai l’opposto: cioè la cosa da dire, premente anche se non sempre facilmente decifrabile – eppure riscattata proprio dalla sua oscura densità. Valgano in proposito le belle tavole esposte in questa medesima mostra, dove, restando riposto il senso, la narrazione si fa tuttavia piana e a suo modo discorsiva.
Per tornare ai ritratti su carta (riconoscibili e contigui a tutto il lavoro precedente di Calusca) rileva una sorta di latente provocazione o contraddizione tra l’identificazione del soggetto – ravvisabile, chiamato per nome dal titolo – e, quasi sempre, l’assenza di notazioni psicologiche: come se il pittore, oltre che del nome, si appagasse della nota fisionomia. Il Cuccia citato, il Carlo Carrà (2), il Ritratto allo specchio I (autoritratto di De Pisis), il Pablo Picasso (2), magistrali, si direbbe che in riferimento al soggetto rappresentato non vadano oltre la mera rassomiglianza. Ma se si astrae dalla singola individualità (persino, anzi, sostituendo a quello un altro sembiante) nulla viene meno della vitale complessità e profondità della figura. Del personaggio, chiunque egli sia, resistono brani, lacerti di vita faticata e sofferta: corpo che senza perdere la nobiltà esibisce, tanto più discreta quanto più cocente, una lacerata difficoltà di esistere e di consistere. La profonda drammaticità dell’immagine (eppure non deflagrante, a suo modo normalizzata), viene da un sommovimento interno, un disgregarsi come per l’inarrestabile lavorio di un virus che smaglia e corrode, contrastato dallo sforzo (o solo accompagnato dal muto desiderio) di salvare, ben più che una fisionomia, una natura, una sostanza umana.
Si vorrebbe sottolineare questa cosiddetta normalizzazione delle forme. Calusca non è espressionista; non soltanto manca in lui ogni risvolto moralistico o variamente spiritualista, ma assente è pure ogni intento deformante comunque derivato da quei risvolti (da Kirchner a Kokoschka, da Ensor a Soutine). Scavalcando l’alterazione formale, il personaggio recupera i tratti consueti di una sua tranquilla quotidianità: a quell’alterazione risulta del tutto estraneo. Tuttavia lacerazioni, raschiamenti e colature non sono fatto esterno, tecnico o linguistico; essi restano essenziali e costitutivi dello spessore poetico. Questo è evidente ad esempio in quel mirabile ritratto di Karol Wojtyla che è Olocausto bis (uno dei più ‘personalizzati’) dove pietà e determinazione nascono non soltanto dall’intensità sottile e struggente dell’impianto cromatico ma, più ancora, dalla consunzione, erosione, svanimento di forme giunte all’acme della pregnanza. Così ancora la Memoria d’incontro (G.B.), una delle opere recenti, dove l’eco del passato e il vago riflusso sentimentale si potenziano proprio contrastando il disfarsi cromaticamente squisito delle forme. O infine, altro esempio fra i tanti, il Ritratto allo specchio II, dove il volto di De Pisis (da cui pure traspare la problematica complessità del personaggio) lotta con la lebbra che lo dilava e lo disfa.
Non soltanto volti. Un gruppetto di nature morte se non muta l’impostazione di fondo ne amplia la gamma espressiva. Tutte di notevole vigore, di essenziale e tesa concisione, esse postulano e anzi centellinano tra le righe riferimenti ad altri mondi culturali: ottocenteschi in Nostalgia (3), dove il soggetto, la cromia, lo stesso pennellare a piccoli tocchi richiamano riconoscibili esperienze di un passato che ancora ci tocca, o vangoghiani in Vecchi passi ed Ultimi passi, entrambi di straordinaria forza evocativa oltre che di perfetta definizione. La mozione affettiva – peraltro misurata ed efficace – entra in serrata e costruttiva dialettica con la struttura formale, cambiando forse natura ma accrescendo la densa, complessa e dolente vitalità.
Le tavole cui si accennava, utile completamento della mostra e necessarie per meglio accostare la multiforme personalità di Calusca, paiono discostarsi dalle opere menzionate – ma non è difficile coglierne la prossimità, se non l’identità di fondo. Intanto anche qui sono presenti e anzi determinanti i ritratti, di cui sia la soluzione linguistica che la portata semantica non si allontanano troppo da quanto già detto. Con l’aggiunta semmai di un sovrappiù di asprezza che, come nel pittore non è infrequente, si fa a volte impietosa. I ritratti sono spesso ambientati – quadro nel quadro – e il dialogo corre intenso tra la sofferenza, disillusione o cinismo del volto, e la finezza di un impianto cromatico squisito. Se il Tavolo sedia sembra sfiorare l’astrazione o l’ermetismo per eccesso di semplificazione (che in realtà accresce il mistero), altrove (V24) il colore più acceso, duro, e la composizione articolata rafforzano la sottesa drammaticità.
Drammaticità che (latente, sepolta, quasi volutamente celata) resta tratto primario e portante della poetica di Calusca – come non poteva non darsi nella vigile sensibilità del giovane maestro: oggi che nelle disarticolate correnti dell’arte la sensibilità scompare e la cura va troppo spesso, con spregiudicata maestria, alla moda, al successo, al mercato.
Guido Giuffrè
dal testo in catalogo:
Incerto consistere
Il nucleo centrale di questa mostra è formato da un gruppo di ritratti eseguiti da Calusca nel 2000. Soltanto due di essi sono dell’anno appena trascorso – e rispetto agli altri non mostrano sostanziali diversità di approccio. Che è approccio, pure nei suoi tratti peculiari, conseguente tanto all’arte europea tradizionale quanto a quella (proteiforme, aleatoria) del tempo nostro.
Il ritratto e l’autoritratto hanno accompagnato la storia della pittura, e la stagione forse più alta (certo la più nota) risale al Rinascimento. Dietro la folta schiera dei moderni (riandando da Van Gogh, fino a Rembrandt) Calusca ha forse larvatamente ricordato gli alti modelli rinascimentali: ad esempio, nel Ritratto mano destra (M.G.), quei maestri (da Francesco del Cossa a Perugino, da Antonello a Memling) che con straordinaria modernità rompevano la gabbia spaziale offrendo quasi tattilmente la mano del ritrattato allo spettatore.
Naturalmente in Calusca l’intento è diverso, e si presta a letture che possono anche eccedere o divergere dai propositi dell’autore. Proprio il ritratto citato, dipinto come la maggior parte degli altri su carta di giornale variamente manipolata, più che un invito al riguardante sembra un’aperta dichiarazione di contenuti: l’indicazione del listino di borsa quale sfera (tacitamente contestata) degli interessi del personaggio: nella specie, e in generale del mondo. Ma anche se Calusca occhieggia talora ai vari suggerimenti della superficie su cui lavora, nella scelta di quel supporto prevale la natura di mero supporto appunto: variegato, maculato, disegualmente ritmato.
E ne nasce qualche considerazione. Intanto una certa relazione con la temperie informale: termine se non onnicomprensivo certo dalle molteplici accezioni – e qui inteso come generico ma pressante coinvolgimento nella materia della pittura (supporto, pigmenti vari), nel gesto del dipingere (da De Kooning a Pollock), nella (destrutturata) struttura della forma; e infine il procedere a macchie, che qui, per il materiale su cui nasce l’immagine, somigliano a strappi. Da Rotella a Sarnari, per restare nella sfera italiana odierna (da oltre cinquant’anni aperta come mai prima a influenze esterne), gli strappi hanno più di un precedente, ma Calusca non ha rapporto né con l’uno né con l’altro degli artisti richiamati: Rotella postulava in accezione ripetitiva e sopravvalutata rapporti con la pop, più che con l’informale; Sarnari, maestro riconosciuto, nelle cosiddette cancellazioni compie interventi sottili quanto complessi – che la squisita pittoricità non sempre sottrae alla raffinata alchimia intellettuale.
In tanti di questi ritratti (W.B.; E. Cuccia; i vari Mario Sironi) Calusca accosta più che mai l’informel: tanto spazio e preponderanza vi hanno la tache, il raschiamento, impeto senso e gusto della materia cromatica come tale, fino allo sconfinare e quasi titillare appunto l’informe – sia pure in magistrale padronanza della forma. La carta stampata vi affiora come scheletro da cui è strappata la carne: sanguinante nel Cuccia, annegata e soffocata nel Sironi I.
Ma già i puntuali riferimenti dei titoli dicono come l’intento di Calusca sia tutt’altro. Gli artisti informali distruggevano o ignoravano il rapporto che da secoli il pittore aveva stabilito e coltivato col mondo (non soltanto delle forme) – per affondare e scavare in una dimensione soggettiva non di rado restia ad ogni comunicazione. Per Calusca invece il rischio è semmai l’opposto: cioè la cosa da dire, premente anche se non sempre facilmente decifrabile – eppure riscattata proprio dalla sua oscura densità. Valgano in proposito le belle tavole esposte in questa medesima mostra, dove, restando riposto il senso, la narrazione si fa tuttavia piana e a suo modo discorsiva.
Per tornare ai ritratti su carta (riconoscibili e contigui a tutto il lavoro precedente di Calusca) rileva una sorta di latente provocazione o contraddizione tra l’identificazione del soggetto – ravvisabile, chiamato per nome dal titolo – e, quasi sempre, l’assenza di notazioni psicologiche: come se il pittore, oltre che del nome, si appagasse della nota fisionomia. Il Cuccia citato, il Carlo Carrà (2), il Ritratto allo specchio I (autoritratto di De Pisis), il Pablo Picasso (2), magistrali, si direbbe che in riferimento al soggetto rappresentato non vadano oltre la mera rassomiglianza. Ma se si astrae dalla singola individualità (persino, anzi, sostituendo a quello un altro sembiante) nulla viene meno della vitale complessità e profondità della figura. Del personaggio, chiunque egli sia, resistono brani, lacerti di vita faticata e sofferta: corpo che senza perdere la nobiltà esibisce, tanto più discreta quanto più cocente, una lacerata difficoltà di esistere e di consistere. La profonda drammaticità dell’immagine (eppure non deflagrante, a suo modo normalizzata), viene da un sommovimento interno, un disgregarsi come per l’inarrestabile lavorio di un virus che smaglia e corrode, contrastato dallo sforzo (o solo accompagnato dal muto desiderio) di salvare, ben più che una fisionomia, una natura, una sostanza umana.
Si vorrebbe sottolineare questa cosiddetta normalizzazione delle forme. Calusca non è espressionista; non soltanto manca in lui ogni risvolto moralistico o variamente spiritualista, ma assente è pure ogni intento deformante comunque derivato da quei risvolti (da Kirchner a Kokoschka, da Ensor a Soutine). Scavalcando l’alterazione formale, il personaggio recupera i tratti consueti di una sua tranquilla quotidianità: a quell’alterazione risulta del tutto estraneo. Tuttavia lacerazioni, raschiamenti e colature non sono fatto esterno, tecnico o linguistico; essi restano essenziali e costitutivi dello spessore poetico. Questo è evidente ad esempio in quel mirabile ritratto di Karol Wojtyla che è Olocausto bis (uno dei più ‘personalizzati’) dove pietà e determinazione nascono non soltanto dall’intensità sottile e struggente dell’impianto cromatico ma, più ancora, dalla consunzione, erosione, svanimento di forme giunte all’acme della pregnanza. Così ancora la Memoria d’incontro (G.B.), una delle opere recenti, dove l’eco del passato e il vago riflusso sentimentale si potenziano proprio contrastando il disfarsi cromaticamente squisito delle forme. O infine, altro esempio fra i tanti, il Ritratto allo specchio II, dove il volto di De Pisis (da cui pure traspare la problematica complessità del personaggio) lotta con la lebbra che lo dilava e lo disfa.
Non soltanto volti. Un gruppetto di nature morte se non muta l’impostazione di fondo ne amplia la gamma espressiva. Tutte di notevole vigore, di essenziale e tesa concisione, esse postulano e anzi centellinano tra le righe riferimenti ad altri mondi culturali: ottocenteschi in Nostalgia (3), dove il soggetto, la cromia, lo stesso pennellare a piccoli tocchi richiamano riconoscibili esperienze di un passato che ancora ci tocca, o vangoghiani in Vecchi passi ed Ultimi passi, entrambi di straordinaria forza evocativa oltre che di perfetta definizione. La mozione affettiva – peraltro misurata ed efficace – entra in serrata e costruttiva dialettica con la struttura formale, cambiando forse natura ma accrescendo la densa, complessa e dolente vitalità.
Le tavole cui si accennava, utile completamento della mostra e necessarie per meglio accostare la multiforme personalità di Calusca, paiono discostarsi dalle opere menzionate – ma non è difficile coglierne la prossimità, se non l’identità di fondo. Intanto anche qui sono presenti e anzi determinanti i ritratti, di cui sia la soluzione linguistica che la portata semantica non si allontanano troppo da quanto già detto. Con l’aggiunta semmai di un sovrappiù di asprezza che, come nel pittore non è infrequente, si fa a volte impietosa. I ritratti sono spesso ambientati – quadro nel quadro – e il dialogo corre intenso tra la sofferenza, disillusione o cinismo del volto, e la finezza di un impianto cromatico squisito. Se il Tavolo sedia sembra sfiorare l’astrazione o l’ermetismo per eccesso di semplificazione (che in realtà accresce il mistero), altrove (V24) il colore più acceso, duro, e la composizione articolata rafforzano la sottesa drammaticità.
Drammaticità che (latente, sepolta, quasi volutamente celata) resta tratto primario e portante della poetica di Calusca – come non poteva non darsi nella vigile sensibilità del giovane maestro: oggi che nelle disarticolate correnti dell’arte la sensibilità scompare e la cura va troppo spesso, con spregiudicata maestria, alla moda, al successo, al mercato.
Guido Giuffrè
25
marzo 2006
Calusca
Dal 25 marzo al 23 aprile 2006
arte contemporanea
Location
MUMI – MUSEO MICHETTI
Francavilla Al Mare, Piazza San Domenico, 1, (Chieti)
Francavilla Al Mare, Piazza San Domenico, 1, (Chieti)
Orario di apertura
dal martedì al venerdi 10-13 e 16-19; sabato e domenica 16-19
Vernissage
25 Marzo 2006, ore 18
Autore
Curatore