Pietro Marcello, Duse, still
Pietro Marcello ci invita al cinema per omaggiare, nel centenario della morte, Eleonora Duse, la più famosa e influente attrice della sua epoca. Il film tuttavia non si concentra sugli anni che le valsero l’appellativo di Divina, bensì sul periodo che va dal ritorno sulle scene fino alla sua morte, avvenuta nel 1921.
Il suo personaggio è interpretato da Valeria Bruni Tedeschi – voluta così fortemente dal regista da non sentire il bisogno di effettuare alcun casting. Un ruolo che le è stato cucito addosso ed è difficile non vedere nel suo stile enfatico, così come in quello dei colleghi, una precisa scelta del regista. Va detto, infatti, che la godibilità del film dipende molto dall’accettare o respingere questa scelta.
In questo, come nei precedenti lavori (Martin Eden e Le vele Scarlatte, entrambi visibili su RaiPlay), si sente l’eco lontano di una guerra come se, per Marcello, osservare i fatti e i personaggi da questa prospettiva ce li rivelasse per ciò che davvero sono, oltre le maschere. Ciò nonostante, i confini tra fantasia e realtà restano labili. Sono due ritorni sulla scena, quelli di Eleonora e dell’Italia, pervasi di simbolismo, di atti psicomagici. La marcia su Roma, la bara vuota del milite ignoto, il mantra del “Vincere e vinceremo”, sono trovate registiche al pari di Ibsen, Shakespeare e, soprattutto, D’Annunzio.
A poco a poco, alla biografia dell’Eleonora attrice si innesta quella dell’Italia fascista fino a formare un unico corpo ambiguo, folle e poetico, che ha perso letteralmente i suoi confini. In questa marcia verso la vittoria, entrambe vogliono riaffermarsi, rivivere i fasti del passato, ma il costo della messinscena consiste in grandissimi sacrifici per entrambe.
Ovunque aleggia un’aria cupa e densa di presagi, in cui Eleonora vaga senza sosta avvolta in un lungo mantello nero, un po’ Maria Maddalena e un po’ regina Grimilde, affiancata dalla assistente Desireè. La vediamo ora intenta a risollevare il morale delle truppe, ora a chiedere finanziamenti per lo spettacolo, e persino a Palazzo Chigi a colloquio con Mussolini.
Le immagini d’archivio dove si vede sfilare il succitato “treno del Milite Ignoto”, riflettono la stessa danza macabra della compagnia teatrale e di un popolo per i quali, vita e morte, perdono progressivamente valore. Non c’è da stupirsi, quindi, che la pièce Ecuba nelle trincee, lo spettacolo su una madre che piange i propri figli caduti in guerra, venga derisa e criticata da una folla che vuole esorcizzare la morte mietendo ancora più vittime. Ed è questa la tensione più grande che si avverte nel film: quella della mancata elaborazione del lutto.
La morte viene continuamente negata, dissacrata: ogni debolezza derisa (il linciaggio di un attore ad opera dei fasci), ogni sentimento negativo soppresso (quando viene proibito a Henrietta e i suoi figli di assistere alla première), la stessa Duse, data per morta, si rialza dal letto come se nulla fosse.
Il palcoscenico allora “diventa” la sfera privata: la vera messinscena è quella che si svolge al di fuori. Un concetto che ritorna alla fine della pellicola nell’acceso scambio con D’Annunzio, che riferendosi a Mussolini, la incalza: «La grande Eleonora Duse… che non riconosce un attore fuori dal teatro?!».
Tutti subiscono, in qualche modo, la seduzione del futuro e marciano sui resti del presente. Eleonora rinuncerà al ruolo di mamma e nonna a cui Henrietta vorrebbe destinarla e che, entrambe, sanno in fondo non essere giusto. A quel punto, non resta che compiere l’ennesimo viaggio e l’ultimo sforzo – che culminerà nella stanchezza finale, da cui nemmeno una divina può guarire – che tanto ricorda l’epilogo di Martin Eden: quell’abbandonarsi al mare mentre, tutt’intorno, il fascismo si insinua minaccioso nella società, sintomo di un male imminente.
Come dicevo all’inizio, ciò che lascia interdetti alcuni è la recitazione “sopra le righe” non solo di Valeria Bruni Tedeschi ma di tutti gli altri attori. Una esasperazione che andrebbe inserita in un contesto preciso, quello appunto del dissolversi dei confini tra rappresentazione e realtà. Del resto, anche ne Le vele scarlatte si assiste a momenti del genere, un po’ opera in costume un po’ musical, che fanno pensare a un tentativo del regista di cercare nuovi approcci narrativi. Le sue firme ci sono, dalla fotografia al materiale d’archivio: ora forse è arrivato il momento di qualcos’altro. Ben venga allora l’iperbole, l’azzardo. E perché no, la farsa.
Menzione a parte merita Mimmo Borrelli, per il quale il problema dell’overacting non si pone. Il suo ruolo è quello dell’egocentrico Ermete Zacconi, personaggio realmente esistito e membro della compagnia della Duse.
La sua plateale uscita di scena a metà pellicola, citando la frase del Come vi piace, mi vendica del tempo speso a teatro a sentirlo sbraitare di «Cazzi» e «Pucchiacche», osannato dalla critica e dal pubblico. Si sa, l’italiano è esterofilo per vocazione: forse, oltre i confini della Campania, i suoi infiniti monologhi in dialetto creano lo stesso charme esotico che spinge le persone a esibire magliette con su scritto “I am an idiot” oppure “I love shit”.
Mondato del suo linguaggio “che tutto sputa, che tutto morde”, smessi i panni del santone in preda a delirio d’onnipotenza, si rivela né più né meno che un buon attore, temprato in parte da quel cinema che la stessa Duse definiva appunto “art du silence”. Qualche volta, un silenzio necessario per chi ascolta.
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