Dal cibacrome al bianco e nero troviamo in questa mostra l’essenza delle immagini di Sottsass di reportage, paesaggi, architettura e design.
“Tra le sue numerose attività, quella di fotografo è forse la meno conosciuta, ma è di importanza vitale per comprendere Ettore Sottsass, il suo lavoro e il suo vocabolario visivo. Nonostante tutto, comunque, Sottsass continua a considerarsi un fotografo dilettante; le sue fotografie, un registro personale e una fonte di idee. Le sue immagini hanno un’aura delicata, intima, come se fossero i frammenti di un lungo viaggio.
Le architetture, gli oggetti, le fotografie, la scrittura di Ettore Sottsass sono tutti parte integrante di un disegno che coniuga la geometria con i sensi. Considerare l’architettura sempre e comunque “abitabile e soprattutto abitata”, significa superare i limiti “strutturali” del Modernismo per approdare ad una visione della vita e delle cose intessuta di relazioni concettuali ma, nello stesso tempo, psichiche ed emotive. Sottsass dichiara che il rinnovamento della società non è solo un affare politico, ma culturale; rigorosamente coerente e con grande sensibilità e intuizione, tutto il lavoro di Sottsass si sviluppa sotto il segno metodologico della stratificazione di piani e di volumi, volumi non solo materiali ma culturali e psicologici (basti pensare, alla fine degli anni Sessanta, all’influenza quasi contemporanea dell’India e della Pop Art nei suoi progetti). ” (fonte Galleria Photology)
Dice l’autore:
“Faccio fotografie da quando ero ragazzo per diverse ragioni. Una perché ho un tremendo senso della morte e fin da ragazzo cercavo di fissare tutto quello che mi succedeva intorno con un sistema un po’ scemo che è quello della fotografia. La mia memoria del resto non è mai stata molto affidabile, spesso confonde le cose e i ricordi, mentre una Polaroid o una foto possono colmare queste mancanze. Di solito la fotografia non ha molto senso, ma può talvolta funzionare come un sostituto della memoria. Anche l’occhio è allo stesso modo inaffidabile: si muove troppo rapidamente, posandosi qui e là, saltando continuamente tra diverse immagini, senza preoccuparsi troppo della memoria. Se esiste una connessione tra memoria e vista, è la memoria che si deve relazionare alla vista, ma alla fine, considerando che la memoria è inaffidabile e che gli occhi si muovono continuamente, l’immagine che ne risulta è due volte sfuocata.
Un altro sistema è collezionare, collezionavo cartine di arance, collezionavo biglietti del tram, quando ero ragazzino. Avevo quest’ansia di fissare quel continuo movimento esistenziale che sentivo mi circondava continuamente e che sentivo passare. Certe volte avevo bisogno di comunicare o un oggetto che avevo disegnato o un’architettura come io pensavo che andasse comunicato….
….In più, fotografare era documentare quello che vedevo: rocce, textures di vari generi, luci radenti o no, dimensioni e proporzioni, architetture di altri e così via. Le ragioni per cui ho fotografato sono tutte, meno che ragioni di tipo professionale. Un professionista fa una fotografia per appoggiarla nel mondo circostante. Per me la fotografia genera un cerchio chiuso: la faccio, gira e torna a me”.
(Intervento di Ettore Sotssas; estratto dalla conferenza: “I Mille Volti della Fotografia”, Galleria Photology, Ottobre 1997).
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