Le immagini debordanti dell’artista friulano acquistano un’ulteriore dimensione: quella del racconto. Una delle particolarità rispetto ai lavori precedenti, è che il punto di partenza sono immagini trovate, secondo la pratica diffusa del found footage, ovvero il riutilizzo del repertorio. L’altra peculiarità è che l’artista non adatta più la videoproiezione all’architettura reale dello spazio espositivo – come era accaduto ad esempio alla GNAM di Roma o all’Hangar Bicocca – ma la modella su una sorta di schermo scomposto da lui ideato e formato, tra l’altro, da due speaker a forma di bianche superfici quadrate 60×60: una sorta di “finestre” – per di più sonore – che aumentano l’effetto di frantumazione e soprattutto di rilievo creato dall’artista già in fase di post produzione.
Nella prima installazione della serie, dal titolo What Goes Around Comes Around, la sequenza è tratta da un film di kung-fu del 1972, L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (The Way of the Dragon) con Bruce Lee e Chuck Norris, dove i due attori-performer combattono nella suggestiva e anacronistica cornice del Colosseo. La scena, pregna di azione (ma anche della suspence che la precede), viene decostruita, rimontata e soprattutto spazializzata in relazione a questo particolare dispositivo multistratificato. Sostanzialmente la ricerca dell’artista non muta, soprattutto dal punto di vista dell’interfaccia immagine/spazio. Il suono, ancor più che nelle fatiche, acquista un ruolo centrale, non tanto poiché sembra nascere con e dentro l’immagine, dal momento che le superfici di proiezione sono gli altoparlanti medesimi, quanto perché il rimontaggio spazializzato degli spezzoni di un b movie anni Settanta, diventa – grazie al gioco di scansioni, flash, deformazioni, ingrandimenti e contrazioni dell’immagine – una sinfonia in cui suono e segno si scambiano le parti: il contrappunto diventa visivo, la texture acustica. In questa installazione – che sarà presentata all’interno della mostra “Lo sguardo espanso” dedicata a un secolo di cinema italiano d’artista (Complesso del San Giovanni a Catanzaro dal 30 novembre al 3 marzo prossimi) – la narrazione è costituita dall’attesa, dalla sfida dei due rivali, dal loro reciproco studiarsi e, infine, dall’affrontarsi a mani nude.
Per le altre installazioni della serie Puppi, ha utilizzato sequenze da Driver, l’imprendibile di Walter Hill o L’australiano di Skolimowski. Ma, la più spettacolare di tutte, è forse l’ultima installazione della serie che sarà presentata dal 15 novembre al 31 dicembre all’interno della mostra “Digitalife” (nell’ambito del festival Romaeuropa), basata invece su spezzoni di un film ben più famoso: Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis. Oltre alla riflessione sul cinema come opera aperta, ricomponibile all’infinito, Puppi lavora, attraverso l’ennesima variazione sul tema, sul concetto di “cinema espanso” che, fin dagli anni Venti – con buona pace di Angela Vettese che, in un suo articolo di qualche settimana fa, pensava fosse invenzione piuttosto recente – ha esaltato la fuoriuscita dalla rigida cornice dello schermo costituendo il terreno di un’infaticabile ricerca.
Certo, Puppi non è interessato tanto alla dimensione del tempo, bensì a quella dello spazio, e il suo found footage diventa così scultoreo fino a fruttare anche la tridimensionalità del suono: peraltro già esplorata in un alcune installazioni basate su invisibili casse direzionali. Nel cinema ri-animato di Puppi l’esperienza filmica diventa così soprattutto sensoriale. Il corpo dello spettatore vibra all’unisono con il dispositivo videoacustico, consentendogli di penetrare in un discorso narrativo già mutato di segno (e di senso).
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