Instant Europe è una mostra con la quale la nuova gestione di Villa Manin zittisce sul nascere i sospetti che questa avventura sia destinata a trasformarsi in una qualche forma di colonizzazione, valorizzando ed accreditando la regione quale ideale punto di contatto e di scambio culturale con le culture dell’est europeo. E, diciamolo subito, la qualità generale delle opere è buona.
Il cipriota Andreas Savva riporta alcuni rifugiati nei luoghi d’origine e li ritrae nelle pose di vecchie fotografie dal loro album di famiglia (serie Now, as before, 2004), l’estone Kai Kaljo si espone alla crudeltà della pubblica derisione con Loser (1997), una mortificazione nota anche nell’opera della conterranea, più celebrata, Ene-Liis Semper (Oasis, 1999). La messa in gioco dell’artista è tema ricorrente anche per Jaan Toomik, anche se gli elementi autobiografici e lirici sono più evidenti nei suoi
Il tema dell’infanzia come finestra sul futuro domina sia nel video Vaskichi del lituano Gintaras Makarevicius, in cui i bambini giocano alla guerra, sia nelle foto dello slovacco Roman Ondák: nella serie Tomorrows, i piccoli protagonisti interpretano possibili ruoli del loro futuro adulto, tra speranza nell’avvenire e ricordo della propria memoria storica.
Interessante la serie Roll Over Museum Live del lituano Arturas Raila, video e foto del 2004 nella quale il collezionismo di auto diventa valvola di sfogo di sogni ed evasione; un po’ quello che accade nei chata, le case per le vacanze della Repubblica Ceka ritratte da Veronika Zapletalova (Summerhouses) che manifestano una repressa voglia di fuga.
Teatralità drammatica è quella di Artur Zmijewski, chiamato al padiglione polacco per la prossima Biennale, e le sue foto in posa di uomini e donne nudi intrecciati, alcuni
In tutto ventisei artisti per dieci paesi. I video si giovano della qualità degli ultrapiatti forniti dallo sponsor tecnico locale McPerson. Il catalogo è una sorta di atlante, introduce gli artisti attraverso schede descrittive dei loro paesi di provenienza. Dati geomorfologici, politici, economici, demografici di una geografia in divenire. Buoni i testi descrittivi ma scarsi i dati tecnici sulle opere. E la breve intervista finale, nella tradizione di Bonami, perpetua una concezione stereotipata dei paesi dell’est, condannati a rappresentare in una cifra drammatica un coacervo di sfighe storiche:isolamento, guerra, totalitarismo, povertà. Un modello che purtroppo troppo spesso diventa l’unica wild card per accedere al sistema dell’arte e del mercato degli occidentali: un po’ perché n’esorcizza le paure, un po’ perché ne compiace le coscienze.
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