In questi giorni, alla vigilia del discusso evento dei G8, Genova ospita molte iniziative importanti: tra le più interessanti la mostra della Galleria Martini & Ronchetti che propone una raccolta di opere di Otto Hofmann, uno degli autori più liberi e significativi formatisi nell’ambito Bauhaus. Parte della rassegna è visibile a Santa Margherita, nella prestigiosa sede del Castello Cinquecentesco.
Hofmann, nato ad Essen nel 1907 e morto novantenne a Pompeiana, entrò giovanissimo in contatto con la fertile realtà del Bauhaus di Dessau, dove frequentò i corsi di Paul Klee, Josef Albers, Oskar Schlemmer e altri tra le maggiori figure dell’arte del secolo scorso, che influenzarono il suo linguaggio artistico. In particolare Kandinsky al quale, come scrive Markus Krause nell’esauriente, bel catalogo che correda la mostra, “offrì il suo tributo reverenziale con alcune composizioni di parvenza planetaria, che si raccolgono attorno a grandi forme circolari”.
Circondato da ‘giganti’, Hofmann trova presto un linguaggio autonomo originale, nel quale è centrale, soprattutto dopo la violenta cesura del nazionalsocialismo, il recupero delle origini della cultura artistica del primo ventennio del secolo, approfondito e difeso pur nell’assoluta capacità di cogliere e interpretare le innovazioni contemporanee.
È un artista incapace di compromessi, che fugge dalla Germania nazista dopo la notifica del divieto di dipingere ‘arte degenerata’ e tornatovi nel dopoguerra la lascia ancora nel ’50, quando il nuovo regime vorrebbe imporre condizionamenti alla sua libertà espressiva.
Tra il 1950 e il 1951 realizza le opere su carta ora in mostra a Genova, emblematiche sia per la tecnica non consueta che per l’eterogeneità dell’alfabeto di segni che, nel momento della piena maturità artistica, Hofmann integra e raccoglie in un ciclo d’opere che è un personalissimo vocabolario-autoritratto: come scrive nel 1995 a Giovanni Battista Martini e Alberto Ronchetti a proposito di una precedente mostra dedicatagli dalla galleria ligure, i suoi disegni costituiscono infatti ‘una sorta di scrittura segreta’.
Le forme che galleggiano entro bianchi spazi indefiniti e aprospettici danno vita a immagini astratte, nella sintesi rigorosa, spietata di un tratto a carboncino che non consente errori, di rado ammorbidito da interventi a tempera, acquerello o pastelli colorati.
Scrive Hanna Stirnemann, che diventerà sua moglie, che per Hofmann “l’arte astratta non è un dogma, ma una confessione. Riconosce le leggi delle forme e dei colori come primarie e le libera dall’oggetto che, troppo a lungo, ha fatto credere di poter essere l’unico elemento portante. Dimostra che la spiritualità nell’opera d’arte non è identica al suo significato letterario, ma che sta, sostanzialmente, nella pura armonia di forme e colori.”
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