Categorie: Moda

fashion_interviste | Plaster Packet

di - 11 Giugno 2009
Un effimero impermeabile usato incontra la potenza dirompente della vita di chi l’ha indossato. Solidifica, ingessa, vetrifica e smalta. Procede così Stefano Errighi, donando a materiali poveri, camicie dismesse e altri indumenti in giacenza nel suo guardaroba una valenza scultorea, congelandoli o pietrificandoli con procedimenti chimici, meglio dire alchemici, di sua invenzione. In un’evoluzione stilistica dei suoi rilievi plastici, il passato è stato lentamente impacchettato, assicurato con funi, pronto per esser spedito. Dopo una lunga esperienza a San Francisco, le sue pitto-sculture conoscono ora una nuova fase artistica: quello che prima veniva pietrificato, oggi viene chimicamente solidificato. Le opere Buio dal buio e Prigione del sé incarnano il passaggio: il passato è colato nel gesso e racchiuso in moduli da mandare il più lontano possibile.

C’è un libro che rappresenta per te il punto zero, l’origine. Vuoi parlarcene?
Estate 2006. Stavo leggendo Le vostre zone erronee dello psicologo statunitense Wayne W. Dyer: un assoluto vento gelato che mi ha destato dal torpore creativo che stavo vivendo fino a quel momento. Ho cominciato a far risorgere visioni reali e oniriche che tentavo disperatamente di rendere tangibili. Per “zone erronee” l’autore intende fondamentalmente tutti quei pensieri, emozioni e comportamenti che risultano autodistruttivi per noi stessi e che ci conducono a vivere una vita lontana dal momento presente, continuamente dipendente dai comportamenti altrui e dal paragone che nasce dal confronto con gli altri. Con questo libro si fa un’esperienza decisiva: io ancora mi sto impegnando per eliminare le mie “zone erronee”, una sfida con me stesso che sto portando avanti impacchettando e solidificando il mio passato, cominciando proprio dai miei vecchi abiti.

Che cosa vedi potenzialmente in un vecchio abito?

In Reinventomè, la mia prima opera nata con questo linguaggio, ho lasciato volutamente che una mia t-shirt, calata nella scagliola, prendesse la forma d’un feto, ancora attaccato al suo cordone ombelicale, ancora ancorato a quella ovattata situazione di torpore non del tutto cosciente. Un auto-invito a staccarmelo di dosso, per uscire da quello stato di seppur piacevole coma e cominciare una nuova esperienza. Nei miei vestiti dismessi trovo tutto quello che mi tiene agganciato al mio passato. Anche se lo scorrere del tempo non implica nessuna trasformazione, nessun miglioramento di sé o crescita interiore: si rimane sempre uguali. Per questo chiudo gli abiti in forme decise, mai oltrepassate dai lembi di tessuto, che non svolazzano ridondanti e nevrotici, ma “collassano” su se stessi, implodendo.

E al fashion system come ti rapporti?
La passione per la moda è forte. Quello che detesto è l’approccio privo di poesia e di rapimenti stendhalici che molti nuovi nomi di oggi sembrano avere. Io sogno ancora una moda cosciente del suo valore intrinseco, del suo valore di “creazione”, tutto il resto è mercato. Un paio d’anni fa, con la mia opera Anorexia, ho voluto comunicare un messaggio molto forte: uno scheletro veniva ingoiato da un sontuoso abito di haute couture, realizzato in tulle bianco e canvas; la situazione installativa faceva da sfondo a una proiezione video: una serie di immagini scorreva in loop, per raccontare il-dietro-le-quinte del glam, tra sesso, droga e sfruttamento. Una sorta di sipario svelato.

Parliamo di tecniche: come avviene la pietrificazione e l’effetto cromatico camaleontico?

Innanzitutto scelgo la forma che dovrà imprigionare i ricordi e degli indumenti che siano interessanti al tatto, prediligendo quelli corposi e ruvidi, ma alla fine in quel “groviglio” convergono un sacco di cose. I primi esperimenti li ho fatti con il gesso. Il capo veniva immerso e modellato in pochi minuti: ad asciugatura avvenuta, il gesso si screpola, ingiallisce, si sfalda e accusa tutti i colpi di un trasporto o di una spedizione. È come se avesse una vita propria: si trasforma, invecchia, ma non muore. Unico difetto: il peso, troppo. L’idea successiva era infatti di creare cose sempre più grandi, con volumi sempre più importanti: così ho iniziato a utilizzare resine sintetiche che conferivano alle opere un aspetto nuovo, eterno. Nascono così Buio dal buio e Prigionia del sé. Il “gioco” della prima è quasi uno scivolare di due oscurità, di densità diverse, l’una sull’altra. Nella seconda invece c’è una trasformazione, in potenza più che in atto, suggerita da un colore camaleontico che screzia in varie tinte, una tinta quasi lisergica, dal verde intenso a un blu profondissimo. Una trasformazione scongiurata da una sorda rete di funi e nodi che trattiene e asfissia quel groviglio. La resina non perdona timidezze e tentennamenti: indurisce velocemente, quindi ho pochi istanti a disposizione per ritorcere e creare volumi, tra un’opera e l’altra ce ne sono parecchie che vengono distrutte. Non c’è possibilità di ripensamento formale, né di riciclo: solo ad opera compiuta decido se “funziona” oppure no.

Nelle tue opere più recenti compare un feticcio glam: smembri e congeli Barbie in una gelatina dai toni caramellosi. Perché?
Riflettevo sulla condizione di prigionia in se stessi e ne ho trovato un’immagine emblematica. Chi meglio (o peggio) della povera Barbie è ingabbiata nel suo mini-mondo? Mentre le prime mie opere sono alquanto estese, fino a un metro quadrato, queste ultime sono molto piccole, 12×12 centimetri: per rappresentare un mini-mondo appunto, sdolcinato e mieloso, nauseante. Il tutto è ovviamente rosa shocking: le borsine, le décolleté a punta come icone del suo arido universo fuori dal tempo, fatto solo di apparenza e di superficialità, di vestitini giusti per ogni occasione, da abbinare correttamente con l’accessorio.

Quali abiti vorresti pietrificare in futuro?
I vostri, naturalmente…

a cura di francesca duranti


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 56. Te l’eri perso? Abbonati!

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