Bach,
Variazioni Goldberg. Al piano, Glenn Gould. A tratti interrotto dal gracidio dei rospi, âingabbiatiâ nei monitor sparpagliati tuttâintorno al chiostrino settecentesco. Niente male, come preludio. Prologo del prologo e improvvisata anomala, non essendo
Robert Wilson (Waco, Texas, 1941) artista tout-court ma regista, ed esulando la sua mostra dal calendario triennale del Madre: un fuori programma legato allââassaggioâ del Teatro Festival Italia (previsto nella primavera-estate 2008), che Napoli è riuscita ad accaparrarsi battendo la concorrenza di Genova.
Cominciato due anni fa e probabilmente votato al destino di
opus continuum, il progetto dei
Voom Portraits si presta a una lettura cadenzata dal prefisso âmetaâ (-cinema, -teatro, -pittura, -fotografia), considerata lâabbondanza di citazioni che invoglia sia lo spettatore praticante che quello occasionale ad apprezzare queste rivisitazioni animate non di uno, ma di vari generi, poichĂŠ allargando lâangolo di visuale -raccomanda lâautore- il ritratto muta in natura morta o paesaggio (purtroppo, in traduzione, il gioco di parole tra
still e
real life del sottotitolo perde dâefficacia).
La spoglia maestositĂ della chiesa di Donnaregina vecchia, provvidenzialmente âassorbitaâ dal museo pigliatutto, contribuisce al successo di queste colte e meticolose elaborazioni, ciascuna dotata dâuna propria colonna sonora (puntualmente indicata dal prezioso dĂŠpliant), che mettono a frutto pratica scenica, sapienza compositiva e manipolazione iconografica. Buoni per il visitatore mordi e fuggi e per chi attende lâintero sviluppo dellâazione, questi videoritratti ad alta definizione sono a volte cosĂŹ lenti da confondersi con semplici lightbox. Eppur si muovono, ma con gesti impercettibili -un battito di palpebre, un respiro, uno scintillio, lo spostamento di una mano- e ripetitivi. Unâillusoria cristallizzazione, appena toccata dalla meccanica del loop. Lâeclettico manierismo di Wilson trasforma artificiosamente i suoi vip
(tranne uno: Paul Fleming, sconosciuto meccanico della California) in inerti performer, automi affrontati per affinitĂ nelle navate laterali secondo un allestimento cromaticamente vario: raffinato bianco e nero per la principessa Carolina di Monaco e lâex imperatrice persiana Farah Diba; colori sgargianti per la vezzosa Isabella Rossellini versione pop e per Allan Cumming bardato come una drag queen. Regina decisamente piĂš composta e arcigna la Maria Stuarda interpretata da Jeanne Moreau, mirabile âquadroâ che quasi prepara alla misteriosa atmosfera che avvolge Sean Penn sotto il Ponte di Brooklyn. Nessuna paura incute Willem Dafoe, oscillante parodia dâuno zombie, mentre inquieta il sardonico e verdognolo âdottorâ Steve Buscemi davanti a un lacerto cruento. Fa sangue, ma in tuttâaltro modo, Johnny Depp, languido
metrosexual impellicciato dagli occhi sfavillanti. Crisi del maschio? Rispondono da un lato lâambiguo scrittore
maudit T.J. Leroy, dallâaltro Brad Pitt, sano giovanottone yankee in mutandoni e calzini ridicolizzato sotto una pioggia scrosciante.
Superato il candore dei gufi e del porcospino Boris, nellâabside si dispone unâoriginale trinitĂ . La patinata antinomia tra sacro e profano, incarnata dal ballerino Mikhail Baryshnikov, nei classici (e succinti) panni dâun metafisico San Sebastiano, e dalla procace spogliarellista Dita von Teese. In mezzo, come nel cuore di unâiconostasi, il volto dello scrittore cinese Gao Xingjian, ieratico e bianco come carta intonsa, attraversato lentamente da una scritta:
âLa solitudine è la condizione necessaria della libertĂ â. Serpente di lettere strisciante sullâimperturbabilitĂ del saggio, ornamento dellâintelletto, ferita obliqua della riflessione. In principio, câè sempre il Verbo.