Virata decisa per il cantore di foreste Simon Keenleyside (nato nel 1975 nell’Essex, Inghilterra, dove vive). Dopo anni trascorsi ad indagare il mistero dei boschi della sua infanzia, tradotto in decorativi preziosismi cromatici dal vago onirismo, ben lontano dall’oscurità profonda e pericolosa delle freudiane selve dell’inconscio, l’artista inglese, tornando ai geometrismi degli esordi, spiazza il pubblico di BlindArte. La galleria napoletana prosegue così, dopo il “multicolore” Jan Albers, il suo viaggio nell’arte che fa dell’immediata gradevolezza coloristica la propria ragion d’essere.
Non più fluida organicità di linee arboree, dunque, ma squadrata rigorosità di abbandonati casermoni di cemento e container proliferanti nelle periferie dell’Essex. Non è tuttavia la denuncia socio-politica a mettere al centro della scena i resti negletti dell’edilizia suburbana, ma l’infantile desiderio di lasciarsi afferrare dall’immaginifico mistero di questi monumentali contenitori ormai vuoti, potenzialmente abitabili da qualsivoglia fantasia. E l’aura di sospensione, perno costante della ricerca di Keenleyside, si fa più evidente ora, nelle squallide vestigia dell’incuria periferica, piuttosto che nelle passate foreste.
In A moment of horror, monumentali edifici cui la prospettiva accelerata conferisce la minacciosità archetipale di primitivi monoliti galleggianti nel vuoto, non basta l’apparente giocosità dello squillante cromatismo a disinnescare una strisciante sensazione di pericolo. Così come le sgocciolature verticali di colore, che attivando un efficace contrasto geometrizzante con gli strati orizzontali dell’immagine, assumono la macabra apparenza di trasudazioni di sangue, specie se lette alla luce del passato uso militare dell’edificio. È forse
L’artista dichiara di lavorare contemporaneamente su più tele, in modo da ottenere un unico movimento creativo, un’interazione tra le opere. Non è illecita, dunque, la sensazione che il loro valore sia fruibile più nell’insieme che nei dettagli, come lo scorrere di scintillanti fotogrammi di memorie autobiografiche dall’accattivante cromia, che solo nel moto acquisiscono la magia di una narrazione.
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diana gianquitto
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