Titoli emblematici, onirici, accompagnano le opere di Giuseppe Pirozzi (Napoli, 1934); titoli che evocano forme astratte negate dalla materialità del risultato, che mettono in moto una fuga di significati a partire da quell’unico significante. Le forme sono profondamente classiche ed eccezionalmente contemporanee, calibratura perfetta per creare uno spaesamento spazio-temporale. I volti femminili, incastonati in ingranaggi infernali, parlano restando in silenzio, citano muse inquietanti e si presentano come frammenti di classicità nel turbinio dell’assemblaggio oggettuale.
Dalle prime opere degli anni Cinquanta, definitivamente incompiute, quasi pezzi di archeologia portati alla luce per caso, si passa alla laboriosità delle opere degli anni successivi; un percorso che si snoda dall’incompleto alla complessità, muovendosi su quella “dolce incurvatura lirica della memoria” (V. Corbi) che caratterizza la produzione dell’artista.
Leit motiv è la tensione materica, intimamente michelangiolesca nel contrapporre soffio di vita e pesantezza della carne; i suoi protagonisti sono “larve organiche” (E. Crispolti) che dominano lo spazio alla ricerca di una propria espansione ambientale, dunque vitale.
Il continuo contrasto tra superfici lisce e increspate, i suggestivi effetti chiaroscurali, fanno parlare di neo barocco, e che se ne parli a Napoli non è certo un caso. Ma la forza del bronzo risiede anche in effetti coloristici difficilmente sperimentati in tutta la loro potenza espressiva. Pirozzi fonde ed intaglia, leviga e assembla, lavora come artigiano e come artista. Racconta l’anelito alla vita che ogni bozzetto racchiude, ma non si trasforma mai in vero Pigmalione, lasciando l’opera poeticamente imperfetta.
Spigoli e superfici lisce si succedono creando un tragitto singhiozzato che conduce fino alle opere degli ultimi anni. Iraq, del 2004, evoca collage ben più drammatici di quelli del Nouveau Rèalisme, cui Pirozzi ha certamente guardato con interesse. È proprio in questa infinità di riferimenti, velati o meno, che l’opera dell’artista si caratterizza, e si differenzia.
Se le sue opere sono macchine celibi, folle mistura di meccanismi di memoria duchampiana, dove ognuna ha senso per sé (e una problematica relazione con l’altro), d’altro canto è impossibile non cogliere l’eco di una classicità che timidamente viene allo scoperto nel momento del caos totale, riportando ordine. Le sue sculture sono così; carne e spirito, oblio e memoria.
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www.giuseppepirozzi.it
alessandra troncone
mostra visitata il 18 luglio 2006
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