01 aprile 2010

COSTELLAZIONE NON PROFIT, II

 
di helga marsala

Continua l’inchiesta di Exibart sul non profit dell’arte in Italia. Seconda puntata, ancora dedicata ai collettivi curatoriali. Sono gruppi di lavoro che scelgono di non avere un proprio spazio espositivo, piccoli nuclei operativi senza fissa dimora, impegnati nell’elaborazione di progetti flessibili e ramificati. Dopo 1:1 (Roma), a.titolo (Torino) e Progetto Isole (Palermo), quattro nuove interessanti realtà che operano nel segno dell’autonomia, del dialogo, della libera ricerca...

di

CAP 1. I
COLLETTIVI CURATORIALI, II


ART AT
WORK – torino

A fondare Art At
Work, nel 2009, sono Ilaria Bonacossa, Paola Clerico, Ilaria Gianni, Francesco
Stocchi, Luca Conzato e Riccardo Ronchi. Curatori i primi quattro, ex
galleristi gli altri due. È infatti con la conclusione dell’esperienza di Maze,
una fra le più interessanti gallerie torinesi negli ultimi dieci anni, che
Conzato e Ronchi – gestori fra l’altro di una rete di fortunatissimi locali e
ristoranti arredati con opere d’arte – decidono di reinventarsi con un progetto
nuovo di zecca. L’idea trainante era quella di creare “un gruppo di lavoro
che potesse in maniera professionale promuovere e commissionare progetti
artistici, all’interno di contesti fuori dall’ordinario
”, spiegano. Nasce così, a Torino,
qualcosa che somiglia a un connettore di energie e contributi eterogenei, un
network duttile per gestire produzioni a più voci. “Siamo un organismo
flessibile, interessato a innescare meccanismi che possano stimolare l’attività
degli artisti e mettere in discussione la pratica curatoriale
”: la ridefinizone dei ruoli, dei
metodi e delle formule operative è alla base di realtà come questa, che nascono
come risposta alternativa al sistema culturale vigente e un po’ stagnante.
La tendenza a perseguire
approcci differenti si palesa già nella natura degli eventi sostenuti: “Il
nostro ultimo progetto, ‘Amare le persone destinate alle tue cose’, è una
mostra curata da Christian Frosi e Diego Perrone. I due hanno rinunciato in
parte al ruolo di artisti, senza però vestire completamente quello di curatori,
e si sono confrontati con lo spazio straordinario e imprevedibile dell’ex
Arsenale di Torino
”.
E così è stato per As you enter the exhibition, you consider this a group
show by an artist you don’t know by the name of Mr. Rossi
, un progetto-mostra atipico,
scaturito da oltre un anno di ricerche di artisti e scrittori, e presentato
negli spazi dell’ex fabbrica Minerva a Milano: “Dal dialogo di più
personalità è nato Mr. Rossi, travestimento di una prassi artistica in cui il
ruolo di protagonista è assunto dalle idee proposte e vagliate collettivamente
”.
Collaborazione e
condivisione, sia sul piano locale che internazionale, sono tra i punti fermi
del gruppo. Basti pensare a esperienze come Zweckgemeinschafft, grande collettiva presso il
MicaMoca a Berlino, sviluppata insieme a cinque giovani gallerie della città.
Oppure a Italian Open, presentazione di un gruppo di artisti italiani ad Amsterdam presso
la Galleria Annet Gelink.
Un principio,
quello delle rete, che determina anche le strategie di finanziamento: “Cerchiamo
sponsor e sostenitori mirati e li coinvolgiamo attivamente nel processo di
produzione e post-produzione. Un modo per intessere relazioni nel sistema
contemporaneo, diffondendosi attraverso canali molteplici
”. Si tratta certo di un percorso
più complesso e faticoso rispetto alle tradizionali mega-partnership stabilite
con i grossi enti; ma è anche l’unica strategia possibile, forse, per sopperire
alla sempre minore diponibilità di fondi publici, nonché per innescare
movimenti espansivi e reali dinamiche processuali nei vari territori d’azione.
La nostra forza
è essere indipendenti
”,
concludono i soci di Art At Work, “saperci confrontare con le esigenze, le
problematiche e le aspettative del nostro tempo, e trovare soluzioni per
lavorare con professionalità. Si può forse azzardare affermando che AAW sia
nato da una reazione alla crisi e ai meccanismi del passato. Desideriamo un
cambiamento e abbiamo fatto un primo passo
”.
Erbematte per Pecha Kucha Night - Katasta, Catania, 2008 - photo Irene Catania
ERBEMATTE
– catania

Abbiamo
iniziato per fanatismo, per sfida nei confronti di chi si occupava da anni a
Catania di arte, anche un po’ per ammazzare la noia, nella convinzione di avere
buone idee e buone capacità curatoriali, nella presunzione di saperlo fare.
Prezioso è stato l’aiuto di chi abbiamo trovato per strada: curatori, amici,
artisti, galleristi, collezionisti, giornalisti, nemici e iettatori
”. A parlare sono Alessandra
Ferlito e Raffaella Leone, ovvero Erbematte, duo curatoriale nato nel 2007.
La questione del
luogo è stata da subito centrale nel loro percorso. L’attitudine di sempre era
quella di immaginare eventi per gli artisti, in luoghi non convenzionali ma
contestualizzati. Poi “il progetto si è evoluto, man mano che siamo riuscite
a liberarci realmente dalle pressioni esercitate da un determinato spazio
”, spiegano. E aggiungono che “ancora
oggi siamo alla ricerca del non luogo assoluto
”.
Ecco allora via via
definirsi progetti atipici, delocalizzati, pensati per contesti insoliti o
perfino immateriali: a cominciare da Effetti collaterali, intervento di Daniele Alonge nel locale (oggi una farmacia)
che aveva ospitato la Galleria Artecontemporanea di Rosanna Musumeci; o ancora
la rassegna Video Trony vol. I, “un esperimento sul senso della vista” in cui 300 televisori
all’interno di tre centri commerciali trasmettevano in contemporanea i video di
alcuni artisti; e infine Sud Km 0, in collaborazione con Marina Sorbello per Uqbar
(Berlino), in cui il “luogo” dell’evento coincideva con l’esperienza stessa del
viaggio e con l’abitacolo di un furgone, a bordo del quale le artiste Maria
Domenica
Rapicavoli e Janne Schaefer avevano coperto la distanza tra
Berlino e Catania.
Il nostro è
stato un percorso metamorfico tendente all’eliminazione di vincoli espositivi e
logistici
”,
aggiungono Raffaella e Alessandra, impegnate oggi, insieme ad altre due
organizzazioni, con un progetto audio, nato a seguito della collaborazione con
Radio Zammù dell’Ateneo di Catania, “che ci ha permesso di trasmettere per
due anni ‘Marte andata e ritorno’
”.
La messa in rete di
abilità e risorse è dunque un fattore determinante. Sia per cementificare
legami che per individuare i migliori (o peggiori) alleati possibili: “Ogni
collaborazione è fondamentale per aumentare la ‘forza dei legami deboli
’. Ogni collaborazione è utile
anche per capire di volerla chiudere; all’interno del meraviglioso mondo
dell’arte non tutti hanno le stesse finalità, fortunatamente
”. Ed ecco allora tutta una serie
di confronti, condivisioni, scambi, che hanno consentito al progetto Erbmatte
di espandersi, continuando a mutare pelle/luogo/voce: dall’associazione Start
di Roma a El Barrio di Torino, dal Bocs di Peppe Lana al Centro culture
contemporanee Zo, fino ai Mercati Generali, tutti in area catanese; dalla
galleria palermitana Zelle di Federico Lupo (“Con il quale abbiamo scritto
il progetto ‘The Zerbe sound Project per 1h Art’”
), alla Farm di Andrea Bartoli (a
Riesi) e ad Artegiovane Torino/Sicilia.
Ma non manca, in
questa felice ottica collaborativa, un’ironica nota (auto)critica: “Ammettiamo
che la diplomazia non è tra le nostre qualità principali. E quindi non siamo in
grado di mantenere i giusti contatti. Un peccato o una fortuna, chissà
”. Peraltro, la questione
economica è certamente connessa a quella delle relazioni da coltivare in
maniera strategica e mirata. Erbematte, a parte il caso di Sud Km 0, che ha ottenuto un finanziamento
parziale dalla Provincia Regionale di Catania e l’aiuto di sponsor privati, si
è sempre autofinanziata. Questo ha implicato un necessario ridimensionamnto di
idee e progetti. La scelta di non avere uno spazio espositivo proprio, del
resto, deriva sì da una motivazione programmatica e concettuale, ma anche da
una squisitamente pratica: “Non potevamo permetterci uno spazio. Abbiamo
dunque lavorato di notte, via email, durante cene e pranzi con amici. A volte è
bastata anche solo una frase. E poi… le erbematte crescono dove capita, dove
trovano terreno fertile. A volte anche sui muri lisci
”.

Harpa - Correspondences 2.2 - veduta della mostra - Roma, 2009HARPA –
milano

Due percorsi di
studio affini, in ambito storico-artistico; poi un’esperienza di lavoro comune,
presso la redazione di Undo.net, a Milano. E infine un’amicizia maturata
parallelamente alla voglia di scambiarsi passioni e curiosità.
Gabriella Arrigoni
e Michela Gulia danno vita nella primavera del
2009 ad Harpa, piattaforma curatoriale in cui far convergere i diversi
interessi di entrambe, avviando una ricerca non circoscritta al solo ambito
artistico. “Puntiamo a uno spettro allargato del sapere, a tutti i tipi di
cultura, dall’agricoltura alla psicoanalisi, dalla medicina all’astronomia,
dall’economia, alla scienza, agli studi di genere
”, raccontano.
Versatilità e
sperimentazione sembrano essere gli orizzonti principali del progetto. Ma
quando chiediamo loro di raccontarsi in quattro parole, ecco i termini che
scelgono: “Progetto: perché implica un processo di ricerca e di studio che
non si esaurisce in sé ma cerca spazio nella realtà. E poi, citando Giulio
Carlo Argan, si progetta anche per non essere progettati. Dialogo: che non è
solo comunicazione, dal momento che se il dialogo è sempre almeno a due voci,
la comunicazione può essere anche univoca. Fantascienza: come metafora di una
pratica che fa della narrativa e della cultura popolare i suoi punti di forza,
e che costruisce universi immaginari, ma sulla base di una logica razionale e
rigorosa. Frustrazione: perché non c’è ricerca senza frustrazione
”.
Il primo progetto è
una collettiva, Correspondences 2.2, ospitata dallo spazio romano 26cc. Punto di partenza fu
il testo di Luce Irigaray La democrazia comincia a due, in cui l’autrice sviluppa una
critica alla cultura occidentale tipicamente “monosogettiva”. Gli artisti dovevano rispondere
a una domanda provocatoria delle curatrici, articolando tra loro un dialogo
epistolare: “Ci è sembrato uno step necessario”, spiegano, “forse anche un
modo per capire meglio la nostra collaborazione
”.
In lavorazione ci
sono ora un’altra collettiva (Flying Saucers Have Landed)sul rapporto tra scienza e
pseudoscienza, ispirata alle teorie di Thomas Khun
” e il progetto Razione K, che vuole riflettere sull’idea
di consumo.
Non c’è dunque una
linea univoca o costante, né rispetto alle sugestioni tematiche, né rispetto
alla proporzioni dei progetti, che possono essere assolutamente low budget ma anche produzioni più
impegnative: “Non avendo uno spazio fisico da sostenere, la situazione
economica può essere più semplice. Le difficoltà però le incontriamo nel
reperire fondi. In Italia manca per esempio una rete come quella dei
Kunstvereine tedeschi, e il dialogo con il mondo dell’impresa è difficile anche
se necessario
”.
Il bilancio
generale tuttavia è positivo e le previsioni ottimistiche: “Le chance per
iniziative come la nostra sono potenzialmente molte. Non pensiamo che sia una
pia illusione, anche se c’è tanto lavoro da fare
”, precisano Gabriella e Michela.
Ma per poter sopravvivere”, aggiungono, “servirebbe che le istituzioni
valutassero adeguatamente l’offerta che queste strutture offrono: la pluralità,
come ogni forma di democrazia, necessita di una struttura di sostegno che non è
solo economica ma anche culturale
”.
Intanto, se
l’istituzione latita, la collaborazione con altri spazi indipendenti è
imprescindibile. E si tratta, per Harpa, “di situazioni non necessariamente
legate al mondo dell’arte
”. È in quest’ottica che citano l’esperienza compiuta oltre
quarant’anni fa a New York dall’Experiments in Art and Technology,
organizzazione non profit fondata nel ‘66 dgli ingegneri Billy Klüver e Fred
Waldhauer e dagli artisti Robert Rauschenberg e Robert Whitman. “Come diceva Kluver”, concludono, “gli artisti
hanno sempre bisogno di nuovi materiali. E forse anche per i curatori le cose
non stanno troppo diversamente
”.
Radice Quadrata - Archivio della bassa risoluzione - Bari, 2009
RADICE
QUADRATA – bari

L’arte pubblica è
la loro cifra identificativa, il rapporto con la città e i cittadini un’urgenza
perseguita sin da subito. Anna Lovecchio e Valentina Vetturi lanciano il progetto Radice
Quadrata nel 2009, a Bari. Ancora una città del Sud, ancora un territorio
difficile. “Forse non è un caso che siamo nate alle periferie del sistema
ufficiale dell’arte. Dove la rete non è capillare, a volte, ci sono più
possibilità di sperimentare. Bisogna però crederci profondamente, e riuscire a
costruirsi un proprio percorso
”. E loro, senza dubbio, ci hanno creduto. Conosciutesi
anni addietro proprio grazie alla passione per l’arte (Anna è storica e
curatrice, Valentina artista), hanno a un certo punto iniziato a viaggiare
molto, finché non è arrivata un’occasione ghiotta: “Quando è uscito il bando
‘Principi Attivi’ della Regione Puglia ci è sembrato un’ottima occasione per
tornare a casa
”,
raccontano.
Gli intenti di
Radice Quadrata? Promuovere esperienze artistiche attente ai processi e alle
trasformazioni che riguardano la collettività, il territorio, le prassi
abitative, la condizione del presente. “Interroghiamo l’esistente”, spiegano, “inventiamo
cartografie relazionali, creiamo spazi di azione artistica e inneschiamo
riflessioni sulle dinamiche dell’arte contemporanea
”.
L’avventura più
significativa? Quella di A bassa risoluzione. Esperimenti spaziali nella
città
, evento
realizzato con i fondi di quel primo bando regionale. Alla base del progetto
c’era l’intenzione di esplorare la frontiera della bassa risoluzione nello
spazio pubblico, idea presa in prestito dalle teorie di Mario Lupano, per la prima
volta applicate dall’architetto Luca Emanueli in una ricerca condotta nella
provincia autonoma di Bolzano. Ma cos’è, in sostanza, uno spazio a bassa
risoluzione? “Si tratta di spazi indecisi, microaree residuali ed
extra-architettoniche presenti nel tessuto urbano
”, raccontano Anna e Valentina, “che,
pur appartenendo al paesaggio quotidiano, rimangono sotto la soglia di
visibilità ordinaria o vengono stigmatizzati perché privi di funzione. Insomma,
micro-aree in cui vediamo le qualità e le potenzialità del ‘terzo paesaggio’ di
cui parla Gilles Clément
”.
Filosofia del
paesaggio, architettura, urbanistica, arte contemporanea e retaggi
situazionisti si incontrano in questo originale progetto di ricerca, suddiviso
in due fasi: la prima, in cui sono state condotte “azioni di rilevamento”
attraverso quattro quartieri di Bari, era volta a creare una mappatura
performativa degli spazi a bassa risoluzione (“Indossavamo delle divise da
‘tecnici’ ed eravamo equippaggiati con un kit composto da vari strumenti di misurazione
e orientamento
”);
la seconda – successiva alla costituzione di un archivio degli oltre settanta
spazi trovati e al lancio di un open call per progetti site specific rivolto a giovani
artisti – coincideva con il festival vero e proprio, “un evento espositivo
diffuso, un esperimento di arte pubblica effimera e processuale
”.
Costante la
presenza sul territorio, per un’operazione che, avendo una natura
specificamente pubblica, necessita della partecipazione diretta di singole
persone, istituzioni pubbliche e realtà culturali locali: “Siamo riuscite a
coinvolgere l’assessorato alle politiche giovanili, l’Accademia di Belle Arti e
le circoscrizioni dei quartieri in cui si è svolto il festival
”; e ancora, nel barese, la galleria
BluOrg, lo spazio Nodo, il Museo Nuova Era, il Museo della Fotografia del
Politecnico, UfoSolar TV e RadioLuogoComune sono alcuni di soggetti coinvolti
con successo.
Abbiamo deciso
di concentrarci sulle problematiche dello spazio pubblico perché ci interessa
il contatto fra l’arte e la gente, al di fuori delle cornici istituzionali.
Finora il nostro project space è stato la città
”, sottolineano. Una città da
interpretare come un grande laboratorio a cielo aperto, dove alimentare “incontri
imprevisti e reciprocità elettive, collaborazioni trasversali e condivisioni
sperimentali
”.


helga marsala

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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Info: www.artatwork.it

www.erbematte.net

www.undo.net/harpa

www.radicequadrata.org


[exibart]


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