29 aprile 2010

PER UNA STORIA SOCIALE DELL’ARTE

 
di emanuela de cecco

Quali volumi? Quali libri? Quali saggi? Quali, insomma, gli strumenti che, con gli occhi di oggi, potrebbero essere utili per una ipotetica (ma non troppo) riscrittura della storia dell’arte più o meno attuale? Ecco una proposta di cassetta degli attrezzi...

di

È quasi impossibile ricordare
tutti i libri che per qualche motivo sono stati importanti per ragioni non
ristrette solo al proprio ambito di studio, ma il numero si restringe molto se
si pensa a quelli a cui, nel tempo, si continua a riconoscere la capacità di
generare domande. Di suggerire percorsi. Mi riferisco ai testi che, presenze
vive, veri e propri compagni di viaggio, virtualmente ci portiamo sempre
dietro, a prescindere dalla relazione diretta con i paesaggi che si andranno ad
attraversare.
Per quanto mi riguarda, uno di
questi è la raccolta di saggi Arte, industria e rivoluzioni (1985) dello storico dell’arte
Enrico Castelnuovo. A distanza di tempo riconosco un’importanza centrale a
quest’incontro, da studentessa di storia della critica d’arte a Genova, perché
mi ha insegnato un “certo modo di studiare la storia dell’arte”, diverso da
quanto avevo riscontrato nei manuali conosciuti fino ad allora. La “scoperta”,
perché di questo si è trattato, comprendeva sostanzialmente due aspetti
fondamentali: il primo riguardava la necessità di considerare le opere d’arte
non come soggetti isolati, ma in rapporto stretto con le forme sociali, i
contesti di produzione, circolazione e ricezione. Con la cura di non sminuirne
il ruolo centrale nella costruzione del discorso storico; il secondo la
necessità che ogni percorso di ricerca dovesse essere sviluppato a partire
dalla consapevolezza dei propri strumenti di analisi e del proprio orizzonte culturale.
Allora conoscevo poco gli scritti di Pierre Bourdieu, e avevo un’altrettanto
scarsa familiarità con il partire da sé introdotto dal pensiero femminista, ma
fu immediata la percezione che queste posizioni potessero aprire delle
possibilità in una direzione che riconoscevo come prioritaria, ovvero studiare
la storia dell’arte ma anche l’arte del presente non solo attraverso il
susseguirsi di lavori, ma come fenomeno da comprendere in un rapporto di
scambio e influenze reciproche con il contesto culturale, politico e sociale.
Pierre BourdieuTutto questo avveniva nella seconda metà degli anni ‘80, in cui – concentrando
lo sguardo sull’Italia e tenendo conto di quello che potevo riuscire a cogliere
e a comprendere allora – percepivo un netto contrasto tra questo sguardo e i
segnali provenienti dal mondo dell’arte che iniziavo a frequentare.
Ma, chiudendo la parentesi sull’esperienza personale, il
contributo di Enrico Castelnuovo ha una importante e riconosciuta centralità
che oggi si rivela, se possibile, di ancora maggiore attualità, in particolare
a proposito del suo fondamentale lavoro di raccordo con gli sviluppi, in area
anglosassone nell’immediato dopoguerra, della cosiddetta storia sociale
dell’arte [1], di cui egli restituisce un ampio quadro a partire dalle origini
e per i tre decenni successivi. L’aspetto esemplare che caratterizza tutta la
sua produzione è l’ampliamento dei confini di una disciplina in tempi in cui le
tracce dell’idealismo erano ancora presenti – In Italia non si era ancora
affacciato il dibattito iniziato in quegli stessi anni sulla cultura visuale e
sulle complicate relazioni che questa area di studi, dovesse o potesse
intrattenere con la storia dell’arte [2] – e l’interesse era, nella maggior
parte dei casi, rivolto più alla storia dei protagonisti e delle forme, molto
meno al “tessuto relazionale proprio al campo artistico”. Nel primo saggio, Storia
sociale dell’arte I

(1976), Enrico Castelnuovo traccia un quadro della storia sociale dell’arte,
ovvero di un “certo modo di fare storia dell’arte, distante tanto
dall’approccio dei formalisti, quanto da quello dei conoscitori, dove i
fenomeni artistici sono analizzati non come fatti isolati ma in rapporto con le
forme sociali
”.
L’autore ne ricostruisce le tappe iniziali, comprese le resistenze e le reazioni,
ma anche gli effetti e gli sviluppi da esso generati. Nel secondo saggio, Storia
sociale dell’arte II

(1977), l’autore sviluppa una prima riflessione su possibili percorsi di
ricerca secondo una “sorta di griglia tipologica basata sulla ripartizione
dei soggetti (committenti, pubblico, istituzioni, artisti, opere) attraverso la
quale fare il punto sullo stato dei problemi in quel momento, ravvisarne i
punti caldi, gli sviluppi più promettenti, le assenze
”. Nel terzo, Il contributo
sociologico

(1980), sono ripresi aspetti di carattere metodologico in parte presenti nei
due saggi precedenti, in particolare lo studio a partire da una griglia
tipologica che, scrive Castelnuovo, è adottata “non per addizionare degli
elementi ma, in modo privilegiato per opporli, che, per usare un termine
impiegato da R. K. Merton, si possono chiamare ‘disfunzioni’ e che
costituiscono a mio avviso, dei ‘momenti di verità per eccellenza’
”.
Pellizza da Volpedo, Strada Nuova a Volpedo. Itinerario sui luoghi pellizziani, piazza Perino, Volpedo
Ancora, sempre nello stesso saggio, da segnalare, i tre
possibili livelli di analisi individuati dall’autore: il primo relativo alle
opere, il secondo ai contesti sociali (produzione, circolazione, ricezione
delle opere), il terzo in cui emerge un elemento centrale già accennato in
precedenza, ovvero la necessità che ogni ricercatore tenga conto non solo
dell’oggetto della propria ricerca ma anche del “proprio orizzonte,
dell’origine e della funzione degli strumenti di cui serve
”. Tra parentesi, quest’ultimo
passaggio ha una sorprendente affinità con il concetto di “sapere situato” o di “oggettività femminista” discusso da Donna Haraway
(1995), dove “l’oggettività si rivela essere questione di corpo particolare
e specifico, e non di quella falsa visione che promette trascendenza di ogni
limite e responsabilità
”. Haraway afferma la necessaria presa di distanza da qualunque
posizione che, nel dichiararsi universale o neutra, occulta una posizione di
potere. Il quarto e il quinto saggio sono esempi di indagini rispettivamente
dedicate ad arte e rivoluzione industriale e a ideologie e politiche artistiche
nella Francia rivoluzionaria. In essi le premesse teoriche si traducono in
fertile applicazione e verifica metodologica sul campo.Ovviamente questa raccolta di saggi non è l’unico punto di riferimento, ma per
le ragioni appena espresse ha senz’altro un valore particolare. Riconosco
quanto un’affermazione di questo genere sia rischiosa poiché, anche senza
dichiararlo apertamente, lascia intendere il desiderio di riuscire a inscrivere
il proprio contributo in quella traccia. Ma è un rischio che, sapendo di fare
un passo in una direzione in cui le orme non coincidono con quelle di chi ha
tracciato il sentiero di riferimento, diventa inevitabile: il tentativo è
proprio quello di correrlo, cercando di trasformare uno sguardo rivolto verso
la tradizione in stimolo e opportunità. A questo proposito, per esempio, lo
studio degli itinerari dedicati agli artisti richiede un ampliamento del
discorso: essi infatti richiedono di essere discussi sia in relazione a
questioni storico-artistiche, sia a questioni relative al marketing del territorio e alla costruzione
della memoria culturale tanto dei singoli artisti quanto dei luoghi. Solo
tenendo conto di questo carattere ibrido si percepisce il senso di questi
particolari oggetti culturali.
Donna Haraway
A proposito invece della necessità di “tenere conto del
proprio orizzonte
”,
il primo elemento considerare è l’arco temporale ristretto di osservazione. Per
quanto la “nostra” percezione del tempo sia soggetta a una crescente
accelerazione, parlare di storia a proposito di una riflessione su fenomeni
riguardanti l’arte dagli ultimi vent’anni all’altro ieri è decisamente
criticabile. Ma, consapevole di questo e consapevole che – rispetto alle
questioni trattate – il mio sguardo non ha una distanza tale da garantire il
distacco necessario, non per questo ho deciso di rinunciare al confronto con
fatti e questioni recenti e recentissimi. Ciò di cui sento l’urgenza è provare
a riconsiderare, con una distanza minima di sicurezza, alcuni episodi che hanno
segnato l’arte di questi anni ma che, nel succedersi frettoloso e affollato
degli eventi, sono stati oggetto di attenzione e discussione per troppo poco
tempo; ovvero – secondo i ritmi scanditi dalla logica mediale – essi hanno
occupato il centro della scena molto e brevemente, per tornare sullo sfondo con
la stessa velocità con cui sono apparsi.
Il riferimento alla storia sociale
dell’arte non si risolve nel tentativo di posizionarsi nella tradizione di un
ambito riconosciuto di ricerca; conta concretamente anche perché essa stessa
suggerisce la necessità di andare a cercare altri ambiti disciplinari di
confronto e di verifica, in particolare riflessioni prodotte in ambito
sociologico e antropologico.
Senza sminuire in alcun modo
l’importanza dei lavori degli artisti, l’intento è dunque quello di esercitare
uno sguardo allargato a ciò che sta attorno ad essi: mi riferisco ai contesti
di produzione, circolazione e ricezione dei lavori, in altre parole gli effetti
oltre alle cause. Ciò che mi interessa – consapevole dei pericoli insiti nel guardare
(troppo) da vicino – è mettere al centro del discorso il “tessuto
relazionale
” al
quale così chiaramente Enrico Castelnuovo, tra i primi, fa riferimento.

[1] Arte e rivoluzione
industriale

(1947) di Francis Klingender, La pittura fiorentina e il suo ambiente
sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento
(1948) di Frederick Antal e la Storia sociale
dell’arte e della letteratura
(1951) di Arnold Hauser, testi presentati e discussi da
Enrico Castelnuovo, sono considerati gli studi di riferimento dell’avvio di un
pensiero che non considera i cambiamenti interni alla storia dell’arte in modo
autoreferenziale ma in rapporto con le strutture della società.
[2] Per una ricostruzione di come è
nata la cultura visuale, disciplina che ha per oggetto di studio non tanto l’essenza
delle immagini ma il ruolo che esse hanno all’interno dei processi comunicativi
di carattere sociale, un primo riferimento è la recente traduzione italiana di
alcuni saggi fondamentali di W.J.T. Mitchell, uno dei fondatori della disciplina
(Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, :duepunti, Palermo 2009). Michele Cometa,
curatore del volume, nell’ampia postfazione commenta i testi di Mitchell
mettendoli in relazione sia con il percorso complessivo dell’autore, sia con
altri punti di vista sviluppatisi in Europa negli stessi anni (in particolare
in Germania), che con esso hanno in comune l’esigenza di ampliare il campi
degli studi sul visuale. Ancora a questo proposito, uno tra i riferimenti più
significativi per cogliere il dibattito interno tra storici e critici dell’arte,
nella compresenza di spinte a ripensare i confini della storia dell’arte con la
diffidenza nei confronti di una disciplina della quale è ancora oggi complicato
definire con esattezza i confini e la metodologia, cfr. Aa.Vv., Visual
Culture Questionnaire
,
in October, n.
77, 1996, pp. 25-70.

emanuela de cecco


*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 64. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]


1 commento

  1. L’interessante articolo lo inserirei nei due grandi filoni del modo di fare storia dell’arte che vanno dal Cavalcaselle ad Adolfo e Lionello venturi a R. Longhi, B.Croce, Toesca, Castelnuovo, Argan e F.Zeri, tra idealisti-formalisti e storici sociali dell’arte…….ma le strade interpretative e di lettura non sono tutte comprensive finalizzate ad una comprensione globale di quelle che chiamiamo opere d’arte?

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