08 ottobre 2007

IL SENSO DEL DISSENSO

 
Trent'anni fa era il 1977. La Biennale fu quella del dissenso culturale dei paesi del blocco comunista. Una pagina unica. Fra ostracismo, ostacoli al finanziamento, sospetti di strumentalizzazione antisovietica e tentativo critico di offrire un contributo pluralistico alla conoscenza della cultura "dissidente" dei Paesi al di là della cortina. Abbiamo incontrato Enrico Crispolti, allora curatore, per la sezione arti visive, della mostra Nuova arte sovietica. Una prospettiva non Ufficiale...

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Quale valore aveva realmente il termine “dissenso”, nella sua prima istanza di formulazione, per una Biennale veneziana?
Con il termine dissenso s’intendevano tutte le voci contrarie e alternative all’ufficialità del governo sovietico, e che si esprimevano in due forme, in modo specifico nell’ambito delle arti figurative: il dissenso esterno, di contestatori esuli -come Soljenitsin-, e un dissenso interno, che nelle arti emergeva chiaramente nella dialettica tra arte riconosciuta e arte non riconosciuta come ufficiale. La questione si prestava a speculazioni politiche, dall’antagonismo di fondo da guerra fredda ai contrasti interni alla situazione italiana: fra socialisti -era allora presidente il socialista Carlo Ripa di Meana- e comunisti. Ripa di Meana tentò in sostanza di fare, se non uno sgambetto, una specie di sorpasso al Pci sul piano culturale; Pci che fin dall’inizio ha assunto una posizione decisamente contraria (con Tortorella, ad esempio, che volle mettermi in guardia dal rischio di lasciarmi strumentalizzare). Come ho sempre cercato di fare, anche allora ho agito secondo la mia convinzione dell’autonomia delle ragioni culturali: cercando di smorzare sia la speculazione socialista, di cui mi rendevo perfettamente conto -per questo ho rifiutato il termine “dissenso” a favore di “non Ufficiale”- sia d’altra parte di contestare la condanna del Pci, al quale pure in sostanza ero vicino.

Questa sua posizione “autonoma” ha quindi a che vedere con la formula “arte non Ufficiale”, piuttosto che “del dissenso” adottata per la sezione arti visive…
Con questa formula ho voluto rendere conto di una precisa situazione storica, con l’intento sia di contenere le interne speculazioni dei socialisti, sia di rispondere alle accuse del Pci di strumentalizzazione in funzione antisovietica. B77 - Il dissenso culturaleBenché ci fossero forme di repressione politica, il problema per gli artisti nell’Urss era soprattutto quello dei profittatori corporativistici di regime. L’identità d’artista era riconosciuta solo se si era iscritti in una sorta di sindacato il cui nucleo forte era costituito da pittori di accademismo figurativo rilanciati, dopo la condanna delle avanguardie storiche, con Stalin e Zdanov, e che non ammettevano situazioni alternative. Esclusione e censura non dipendevano da un’idea forte di “arte degenerata”, come sotto il nazismo: prima ancora che politica si trattava di un’esclusione corporativa. Artisti come i Cinetisti, ad esempio, non erano riconosciuti come produttori ufficiali dell’opera d’arte, benché pubblicassero sulle riviste di architettura rientrando nel filone dell’allestimento delle feste e degli spazi effimeri. Senza che fossero perseguitati venivano però contestati dall’autorità quando cercavano di esprimersi in spazi pubblici: una questione di ordine locale.

Preoccupazioni di strumentalizzazione giunsero però anche da parte di artisti stessi, come Neumechin, che le indirizzò una lettera di protesta per il fatto di essere stato coinvolto a sua insaputa…
Al momento di fare un piano per le arti figurative, io ho steso una lista, privata, ancora ipotetica, di artisti “non ufficiali” da proporre per la mostra, che Ripa di Meana, con un atto scorretto, un vero colpo di mano, ha tirato fuori in una conferenza stampa che annunciava i contenuti della Biennale del dissenso. Questo ha provocato un caos nei vari paesi, creando seri problemi agli artisti che vennero accusati dalla polizia di collaborare con l’Ovest. E ha rovinato il progetto della mostra, chiudendoci tutte le vie di collaborazione diplomatica con i governi.

Le opere esposte, dunque, vennero raccolte tra quelle esistenti in Europa occidentale, attraverso citazioni critiche e museografiche, senza un diretto rapporto con gli artisti o i governi. Quali le difficoltà nel lavorare in queste condizioni?
La questione della conferenza stampa causò una levata di scudi ufficiale da parte dei paesi che ci interessavano e che si allinearono sulle posizioni di contrarietà del governo sovietico. Malgrado ciò, feci un viaggio di ricognizione tra Budapest, Varsavia, Berlino Est, dove però mi avevano segnalato subito in quanto curatore della mostra, facendomi sempre seguire a distanza dalla polizia. Ho girato, parlato con molti artisti, ad esempio a Budapest, dove lavoravano anche contestatori sul piano del comportamento e della mail-art, una forma molto libera. Enrico CrispoltiHo cercato di avere rapporti ufficiali, chiedendo collaborazioni pratiche ai governi ungherese e polacco, come già ero riuscito nel ’68 per la mostra Alternative Attuali 3 all’Aquila con il governo cecoslovacco, che aveva coperto le spese di trasporto delle opere fino al confine italiano. Ma fu impossibile, dovemmo per la mostra limitarci ai sovietici, reperibili più facilmente, alcuni perché emigrati, e degli altri perché si trovavano opere in musei e gallerie tra Francia, Germania Ovest.

Fa riflettere, in effetti, che sia a Parigi che a Berlino che a Londra ospitassero in quegli stessi anni mostre delle avanguardie sovietiche più recenti. Al di là delle difficoltà politiche del ’77, sembra invece che la critica in Italia fosse ancora fortemente legata all’astrattismo storico, e piuttosto inerte rispetto alle espressioni della “nuova” arte sovietica…
In Italia si pensava che l’astrattismo russo fosse l’apporto forte, come del resto è vero, di tutta l’avanguardia sovietica fino allo stalinismo, fino a includere alcuni artisti vicini alla nuova oggettività, ma che dopo ci fosse il vuoto. Faceva eccezione Giuseppe Marchiori, veneziano e primo per vocazione regionale a dialogare con gli artisti anche “non ufficiali” dell’est europeo, molti dei quali partecipavano alle Biennali, liberamente, nei rispettivi padiglioni nazionali: per primi negli anni Cinquanta gli jugoslavi, seguiti da polacchi e ungheresi. Invece, proprio i russi del realismo socialista, che pure arrivavano alle biennali, erano marginalizzati, considerati dei mentecatti. Né i governi italiani democristiani e di centro-sinistra, né i mercanti avevano interesse a promuoverli ed esporli. A Parigi, certo, c’era più attenzione per il quadro sovietico, anche per la presenza di una colonia di artisti esuli, della linea un po’ simbolico mistica, legata alle icone, della scuola di Leningrado, come Zacharov Ljiagacev e altri…

Tornando alla mostra, cosa ha significato sul piano dell’osservazione critica l’impiego di categorie come “figurazione e figurazione lirica”, “gesto materia e immagine” o “ironia e altro intorno al quotidiano”? Quali gli artisti più interessanti?
Erano categorie critiche che avevo adoperato anche in Occidente -alcune modulate in relazione ai materiali e ai problemi che si presentavano-, dunque che servivano all’inserimento in un discorso critico complessivo. Fu un tentativo articolato e sistematico di dare un senso e un ordine storico-critico alla “nuova” arte sovietica, che avevo già avviato nelle mostre Alternative attuali del ’65 e del ’68 all’Aquila. Lì ho cominciato a mettere dei punti fermi su tutto un panorama che una decina di anni dopo, a Venezia, si arricchiva confermando molte intuizioni in merito ad artisti che erano già allora i migliori. Interessanti i surreali, come il primo Kabakov, e soprattutto i Cinetisti, già conosciuti nel ’65, con la loro esaltazione della tecnologia. Poi, vera novità della mostra, una linea vicina o dialettica rispetto alla pop art e all’immagine del quotidiano. Interessanti anche gli informali come Kulakov, Plavinski Bulakov e la Masterkova. Artisti che hanno poi fatto poca fortuna anche perché hanno perso quell’aura di “non ufficialità” che li faceva emergere in quel contesto.
Enrico Crispolti ed Ezio Pagano
Finita la gestione Ripa di Meana, entro cui fu possibile un’edizione speciale come quella del dissenso, la Biennale ha poi smarrito la capacità di cogliere l’attualità anche in chiave così politica e sociale…
Al di là delle intenzioni politiche, il valore di Ripa di Meana come Presidente stava nell’alto senso del ruolo e nell’apertura all’attualità vera. Gestioni successive, come quella di Galasso, se pur bravo storico, sono state ad esempio sordide, riduttive, prive di inventiva… Negli anni successivi ha cominciato a dettare legge quasi esclusivamente il mercato, il protagonismo e voglia di arraffare dei critici demiurghi alla Bonito Oliva, scadendo in una sorta di provincialismo “internazionale”. Credo invece che il giusto ruolo del critico dovrebbe essere di scegliere gli attori con le loro qualità professionali, per poi armonizzare i rapporti e mettere insieme una squadra complessiva. Pluralità e non la logica dell’accentramento e del protagonismo divistico che è poi prevalsa.

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