È sempre così. Open non è solo un titolo accattivante. Si mette in gioco ogni volta proponendo un tema e anteponendovi una negazione. Sarà così per il prossimo numero, previsto per maggio 2005, con (in)visibility, e così è stato per le ultime pubblicazioni, dedicate per esempio alla (in)security. Il tema della memoria e dell’archivio si presta d’altronde in maniera particolare a quest’approccio. È ormai banale affermare, almeno dopo Freud e Nietzsche, che un archivio tropo esteso equivale all’oblìo e che la memoria stessa altro non è che un oblìo selettivo. Per comprendere un discorso simile si può ricorrere a discorsi complessi come quello tenuto dal compianto Derrida in Mal d’archive (1995), oppure all’immagine inquietante che chiude il primo Indiana Jones, dove si vede la destinazione dell’Arca dell’Alleanza: un enorme magazzino ove tutto è debitamente contrassegnato e cartabollato, ma dove proprio per ciò è come seppellita à jamais. Se guardiamo all’era digitale, come al solito ci avevano pensato con debito anticipo gli organizzatori del festival “Ars Electronica”, che già nel 1995 avevano dedicato un platform proprio ai database elettronici.
Nel settimo cahier di Open il tema viene sviluppato con un buon livello di approfondimento e tagli differenti che arricchiscono la comprensione della questione. Dal discorso concernente la politica della memoria e i monumenti (Frank van Vree) al pazzesco archivio di immagini posseduto da Bill Gates nella sua Iron Mountain in Pennsylvnaia (Jorinde Seijdel), passando per un interessante statement di Jordan Crandall in merito alla rappresentazione dei conflitti armati. Sul fronte più strettamente artistico vanno segnalati tre interventi: l’intervista a Tjebbe van Tijen curata da Geert Loving, il “saggio fotografico” -dedicato agli archivi- di Nico Bick e il progetto del più noto Nico Dockx.
Ma il contributo più importante è quello firmato dal sociologo Wolfgang Ernst. Analizzando il ruolo dell’archivio contemporaneo, nota come si sia passati da una memoria narrativa a una di tipo “calcolante”, dunque da una dimensione spaziale a una temporale. L’“archival time” si costituisce allora letteralmente come una “metafora”, con tutto ciò che ne consegue quanto a interpretazione dei dati e quindi della (nostra) storia. Una possibilità e un pericolo che siamo chiamati inevitabilmente a gestire, e non a delegare a istanze presunte superiori.
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