Maurizio Calvesi, curatore della mostra con Claudia Terenzi, dal catalogo lo grida ai quattro venti: bisogna far rientrare a pieno titolo nell’olimpo dell’Arte Povera l’ormai romano d’adozione
Mario Ceroli (Castelfrentano, Chieti, 1938; vive a Roma). E questa mostra vuol essere, oltre a un omaggio all’artista per gli oltre trent’anni d’attività e per il suo lungo operare nella capitale, la conferma della giustezza della designazione. Se non altro perché, già dagli anni ’50, Ceroli fa un uso originale,
“poetico e simbolico” dei materiali poveri, soprattutto del legno grezzo.
Una mostra che non vuol essere antologica né retrospettiva, ma semplicemente sottolineare la spettacolarità di materiali “poveri” tra i più eterogenei, che si impreziosiscono nel suggestivo utilizzo da parte dell’artista. Anche se, a voler essere maligni, sembrerebbe che neanche gli allestitori siano, in fondo, pienamente convinti della revisione della collocazione dell’artista. Infatti, seppur a Ceroli sia stata assegnata una buona fetta di spazio, è però relegato “dietro le quinte”: si deve chiedere al personale di sorveglianza dove si trova la mostra, dal momento che non esiste alcuna segnaletica che lo indichi.
Una volta raggiunta la Sala delle colonne, tutta l’originalità e, soprattutto, la fervida attività di Ceroli, esplode davanti agli occhi, nei colori e nei materiali. Ma anche qui, nell’allestimento riaffiora l’incertezza. La celebre
Cina (1966) è svilita, quasi messa all’angolo, addossata a una parete, tra paline segnaletiche e porte di passaggio. Per osservarla bisogna spingersi quasi in mezzo a
Piazza Italia (2007). Lo stesso dicasi per
Raccoglitore di miele (1991), praticamente invisibile, “sporcato” dalla postazione antincendio e ignorato addirittura dal catalogo, che non lo inserisce nella lista delle opere esposte. A ben leggere, diverse sono le opere taciute dall’elenco.
Il fascino delle opere è tutto poggiato sulla potenza interna che ognuna di esse racchiude. Materiali, quindi, e colori riescono, nella loro semplicità, a toccare precise corde emozionali, ad affascinare e ammaliare per la conquistata sobrietà. Così è per la già citata
Piazza Italia, composta da numerosi e arcobalenici mucchietti di polveri, frammenti di vetro, ceneri, con la quale è stata eseguita l’instabile, polemica scritta
Keroliiiii…... Al centro, una evocativa e simbolica scala dove salgono (o scendono) le tre dispettose figure -realizzate con la nota sagoma in legno grezzo- che sembrano aver sparso i mucchietti di polveri colorate.
Le talebane (2007), dall’alto del piedistallo, esprimono tutto il peso della loro soffocante condizione umana e sociale.
Uno dei sette personaggi in cerca di identità (2007), coppia di sedicenti guerrieri costruiti con un groviglio di fili di ferro.
Misteriosamente evocativi i due
Senza titolo del 2007: due porte, una aperta e l’altra chiusa, costruite con blocchetti di tufo (materiale caro ai romani), che sembrano ingressi trionfali per impossibili luoghi, essendo entrambe soglie non attraversabili. Infine, le grandi tavole in legno e ceneri
Senza titolo (2007), con figure, possenti o esili, intagliate, rappresentanti scene mitologiche o citazioni di artisti del passato, divise in due sale: in una sono raggruppate quelle in rilievo, nell’altra l’identica figura è invece scavata nel legno. A formare quindi due speculari metà di un’unica realtà.