Eccoci, dilaniati dal nutrimento. Sotto vetro o sotto un tavolo, un po’ bambole e un po’ mostriciattoli, sempre in qualche modo capovolti. Prendine finché vuoi, di elisir: ce n’è per tutti e in tanti bei colori. Ma a sollevarti davvero –sembra ammonire Myriam Laplante (Canada 1954, vive a Roma)– non provarci nemmeno.
Infatti ci prova lei, con una performance memorabile, equipaggiata con una seconda testa e due braccia di troppo, intenta a riemergere dal fondo di un’ampolla ricolma (quando si dice perdersi in un bicchier d’acqua…) ribaltandosi come un guanto.
Una metafora ispida che ha la potenza del siparietto, un’apologia –tutt’altro che didascalica– della capriola e delle sue proprietà salvifiche. Laggiù, nel poco liquido che basta per non respirare, finisca pure la testa sbagliata, quella imbambolata; in alto, invece, una volta completato l’upside-down, spazio alle nuvole di uno sguardo teso, finalmente interdetto, comunque ritrovato.
Per il resto, purtroppo, le cose funzionano eccome: sui ripiani di una piccola bottega degli orrori che si è fatta (assai) grande, in corrispondenza di creaturine tanto improbabili quanto immobili, gli alambicchi-nutrice se ne stanno schierati in perfetto ordine. I fornelli ardono, l’elisir bolle, qualcuno (le vittime designate, ça va sans dire ) fischietta un sinistro motivetto di giubilo. Insomma, non c’è tempo da perdere: bisogna somministrare al malcapitato di turno –goccia a goccia e per il suo bene– la pozione miracolosa che lo ridurrà ai minimi termini. Poi c’è una reputazione da difendere e, soprattutto, un rischio da non sottovalutare: che il rispettabile white cube da laboratorio, gratta gratta, finisca per scintillare come il marmo lindo della macelleria.
Col passare delle ore e dei giorni, ingrassandole premurosamente, sarà la salute che piove dal cielo a sventrare le bambole. E a farne addirittura, per chi avrà la fortuna di tornare a visitarle dopo il trattamento, tanti piccoli scheletri. Da compattare e rottamare, oppure da sistemare sotto vuoto, in un “sogno lucido” che si materializza –quanto mai roseo– negli oblò e negli appositi vasetti.
Quello cui si assiste, allora, a partire dall’ingresso trasformato in sala d’aspetto, è una sorta di aberrante opus alchemico: sotto forma di work in progress a ritroso, in direzione di una nigredo da doping postindustriale. Il tutto in un’atmosfera grottesca che, però, più che da incubo prêt-à-porter, è da ritorno alle ragioni –anzi, alle contorsioni– della consapevolezza. Come a dire: ci sarà pure chi morde la mano che nutre, ma come dimenticare chi avvelena le bocche che sfama?
pericle guaglianone
mostra visitata il 29 novembre 2004
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e davvero un privileggio convivere nella stessa città con un'artista del calibro di Myriam Laplante. Bravi quelli di Volume! Lunga Vita!!