Si dirà che questa personale romana –la seconda in tre anni– Tracey Emin l’ha risolta in surplace, coi disegnini conditi con l’acrilico, su tele-francobollo che misurano venti centimetri per lato. Si parlerà di autografi rilasciati “a parete”, serviti in cornici e cornicette a schiera, perfetti per i salottini che (non) contano. E si dirà che si è decisa per la pittura –anzi, per la matita– perché è tipico del big, di tanto in tanto, di proporsi in mise comodamente impagliate.
Senonché, si faranno pure le eccezioni dovute. Puntualissime. Per le cosiddette cose migliori, per il copione collaudato ma tuttora ruggente, per l’artista che non ha ancora messo la cosiddetta testa a posto. Col risultato che alle novità appena accennate e non meglio identificabili verranno contrapposti proprio i pezzi immediatamente riconoscibili. Poco importa se risalenti all’oggi ma relativi a ieri; poco importa se nati imbalsamati e smerigliati quel tanto che (non) basta. Verranno tratti in salvo, nella fattispecie, soltanto i lavori a ricamo su cotone (sette in tutto, non pochi) e i due neon che recitano, striminziti ma inconfondibili, With my heart e, appunto, More flow.
Per chi scrive, all’opposto, il difetto di una mostra come questa sta proprio nel suo risultare una mostra assolutamente compatta. Di più: una mostra compattata e col baricentro incomprensibilmente proteso all’indietro; sorta di operazione cofanetto che si avventura nell’impresa non facile di smorzare le cose nuove e di annacquare le cose vecchie.
L’ennesimo tentativo fallito, per la cronaca, di sommini
Peccato. Perché a Tracey Emin tela e pennello –e il dripping, e la matita– magari s’addicono pure. Va’ a saperlo. Tanto vale aspettare Venezia, 52. Biennale d’Arte, padiglione inglese. Nel frattempo, si consiglia di godersi il suo lavoro direttamente sui cataloghi. Dove si trova facilmente tutto ciò che, fino ad ora, bisogna conoscere: le installazioni memorabili e le trascrizioni-lampo da un immaginario privatissimo, corsivo e penitente, sublimato per mezzo del passo lento e morbosetto del cucito.
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sei sempre bravo.
Ma la Emin sempre a Roma va? Non è per caso che a Londra s'annoia...