16 novembre 2019

Cerith Wyn Evans trasforma la gestualità in luce

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All'Hangar Bicocca di Milano la più grande mostra dell'artista gallese Cerith Wyn Evans mai realizzata. Con installazioni che creano un dialogo proporzionato e su misura per l'ambiente

Cerith Wyn Evans hangar bicocca
Cerith Wyn Evans, Vista della mostra

Cerith Wyn Evans (Llanelli, Galles, Regno Unito, 1958) conduce gli studi e inizia la sua carriera come videomaker. Solo dagli anni novanta inizia a mutuare il linguaggio filmico in altri medium artistici, senza tuttavia abbandonare i concetti registici e di montaggio maturati. Dal cinema strutturale inglese degli anni ‘80 conserva la predilezione per l’antinarrativa. Inoltrandosi tra le campate di Pirelli HangarBicocca si capisce come i pilastri su cui si basa il cinema – luce, suono e tempo – permangano nell’evoluzione artistica di Wyn Evans esposta in quella che è la sua più grande mostra personale concepita fino ad oggi. L’Hangar accoglie perlopiù installazioni recenti e alcune prodotte o riadattate per lo spazio in modo da creare un dialogo proporzionato in un’ambientazione su misura. Il background sperimentale dell’artista non è evidente, ma lo si deduce dall’estrema sintesi che compie e che si materializza in luce simbolica, rappresentativa e grafica. La configurazione dell’esposizione verte su scale e ritmi che oltre alla luce coinvolgono il suono, e sovvertono alcune percezioni consuete dell’osservatore.

La composizione della mostra

La mostra si apre con sette colonne luminose (StarStarStar/Steer (totransversephoton), 2019) dalle fattezze classicheggianti ma dalla struttura contraddittoria. I LED di cui sono composte si azionano seguendo una partitura muta, le cui variazioni si percepiscono grazie al mutare della luminescenza, che passa da fioca a brillante. La loro monumentalità è apparente e resa vana dalla mancanza di una funzione strutturale e dall’evidente sospensione, e la loro stessa presenza è quasi messa in discussione dal loro spegnersi e rivelare la struttura composta di vetro, cavi elettrici e parti metalliche.

Nell’incipit delle Navate si trova la prima opera sonora, Composition for 37 Flutes (in two parts) (2018), due gruppi di flauti di vetro disposti a raggiera, grazie a degli azionatori meccanici, emanano dei suoni preordinati che non intendono imitare una melodia, ma richiamano il ritmo del respiro, introducendo la costante pratica di Wyn Evans di riferirsi all’uomo e ai suoi gesti, senza mai rappresentarli esplicitamente.

 

Abbracciare lo spazio

La distribuzione delle installazioni a neon nelle due Navate corre parallelamente e segue una sincronia prestabilita, come a formare una composizione unitaria; non c’è un percorso di fruizione predisposto, l’ambiente invita il visitatore dapprima ad abbracciare lo spazio con un colpo d’occhio, poi ad addentrarsi per distinguere le varie opere. Entrambi i corridoi iniziano con due riferimenti alla visione presi in prestito da Marcel Duchamp. Radiant Fold (…the Illuminating Gas) (2017-2018) è una citazione dei “Témoins oculistes” (Testimoni oculisti), disegni che richiamano strumenti ottici che l’artista francese inserisce in La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, detto anche Il Grande Vetro. Anche il nome dell’opera – e della mostra – sottolinea il debito che Wyn Evans ha nei confronti del maestro del Novecento, in quanto “le gaz d’éclairage” (il gas d’illuminazione) è parte del titolo che Duchamp assegna al diorama creato tra il 1946 e il 1966 che riflette sul ruolo voyeuristico dell’osservatore. A seguire, lungo le Navate le composizioni di neon cambiano registro, da un lato si presentano come installazioni disseminate nello spazio, dall’altro si impone un’opera monumentale più compatta; rispettivamente Neon Forms (after Noh) (2015-2019) e Forms in Space… by Light (in Time) (2017) rappresentano il corpo principale e il fulcro della mostra. All’apparenza sono forme spontanee, astratte o addirittura confuse, in realtà restituiscono sotto forma di luce una secolare tradizione giapponese. Il Noh, nato nel XIV secolo e tuttora diffuso, è una pratica teatrale in cui prevale la gestualità degli attori rispetto alla narrazione. I movimenti lenti, l’uso di maschere, la trascurabilità dei dialoghi, rendono le rappresentazioni teatrali simili a dei rituali. Questa ritualità è codificata nei “diagrammi dei kata” che l’artista traduce in luce, i gesti così non solo vengono evocati, ma risultano tradotti in energia. Nel prediligere questa forma teatrale Cerith Wyn Evans sembra rimanere ancorato al cinema strutturale che l’ha influenzato, la cui poetica vede la forma prevalere sulla sceneggiatura. Nell’uso dei neon sembra condensare l’idea duchampiana secondo la quale l’uomo può essere rappresentato come una macchina e quindi apre alla possibilità che un medium frutto di alta artificialità possa raffigurarne i movimenti. Questa operazione non è solo una traslitterazione ma un vero atto creativo, nelle installazioni si possono individuare delle forme che si modificano secondo l’alternanza di stasi e movimento, e quindi implicando lo svolgimento di un’azione viene introdotto il tempo. Forms in Space… by Light (in Time), la più grande installazione la cui luce pervade lo spazio, riassume e amplifica la poetica dell’artista. Nel titolo racchiude gli elementi chiave, forma, spazio, luce e tempo, ed estendendosi per quasi tutta la lunghezza della navata costituisce, proponendo una metafora musicale, il tema principale su cui concettualmente si avvicenda cadenzata la serie Neon Forms.

 

Suoni, luce ed energia

Nelle vicinanze e all’interno del Cubo, udito e vista sono impegnati nella fruizione di opere che riguardano la percezione di suoni, luce, movimento e degli astri. Installazioni costituite da casse disposte a terra, come nel caso di T=R=A=N=S=F=E=R=E=N=C=E (Frequency shifting paradigms in streaming audio) (2009) o sospese come in C=O=N=S=T=E=L=L=A=T=I=O=N (I call your image to mind) (2010), immergono il visitatore tra svariate suggestioni sonore che vanno da registrazioni di radiotelescopi a musica sperimentale degli anni ‘70 e brani di pianoforte. Still life (In course of arrangement…) (2019) rievoca il cinema, mentre una coppia di lampadari curiosamente bassi e altri due insospettabilmente alti (Mantra, 2016 e S=U=T=R=A, 2017) si accendono seguendo un componimento musicale dell’artista stesso. A capeggiare sospesi al centro, i versi del testo di E=C=L=I=P=S=E (2015) descrivono con precisione scientifica le fasi di un’eclissi solare.

A chiudere la mostra, posta all’esterno dell’edificio, una delle prime sculture a neon dell’artista. TIX3 (1994), “exit” scritto al contrario e installato in corrispondenza di una porta, fu prodotta in seguito a un’esperienza personale dell’artista. Come in modo soggettivo Cerith Wyn Evans riporta una vicenda ordinaria reinterpretando un comune indicatore segnaletico, a sua volta il visitatore è invitato a trarre un’esperienza personale della mostra. Per ammissione dello spesso artista “la cosa essenziale è che il mio punto di vista non è l’unico possibile. Si tratta innanzitutto di una sorta di spazio per la meditazione, di un luogo dove abbandonarsi alla contemplazione della trasmissione di energia”.

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