Viaggio dei pani del desiderio, progetto di Ilaria Turba, 2025, still from video
Nel silenzio austero delle sale del MAN di Nuoro, la mostra di Ilaria Turba, I pani del desiderio, si presenta come epifania di un gesto collettivo che si fa memoria, rito e interrogazione etica. Curata da Elisabetta Masala, l’esposizione, visitabile fino al 2 novembre 2025, suggella l’ultima tappa italiana di un percorso itinerante cominciato nei quartieri nord di Marsiglia e articolatosi attraverso contesti urbani e rurali fino alla Sardegna, zona simbolica e geografica di compimento.
Come scrive la curatrice, «I pani di Ilaria Turba non contengono solo farina, acqua e lievito, ma anche sogni, memorie e aspirazioni comuni». È vero ma quell’indicazione, ricca di pathos, va interrogata: che cosa significa «Dare forma a un desiderio», e quanto può effettivamente un’operazione artistica recuperare, attraverso la materia, la potenza del desiderio collettivo di cui è portatrice?
Sul piano tecnico e metodologico, Turba inaugura un dialogo tra arte relazionale e antropologia del gesto: la panificazione rituale, pratica ancestrale presente in molte culture mediterranee – diviene dispositivo per attivare relazioni sociali, ascolto e co-creazione. Ne è testimonianza la genesi del progetto: nei laboratori attivati a Marsiglia, «Due persone sconosciute si sedevano una di fronte all’altra e lavoravano insieme», trasformando in operazione simbolica un gesto quotidiano e archetipico. Questo tipo di operatività produce uno scarto interessante tra “Opera finita” e “processo live”: l’installazione finale al museo è solo l’epilogo visibile di un percorso che ha dato corpo, voce e rito a desideri privati e comunitari.
Nella tappa sarda di Villaurbana, il gesto rituale culmina in un rogo collettivo: i pani vengono affidati al fuoco e la polvere nera che ne deriva si fa materia dei desideri perduti ma non dispersi. La metamorfosi non è rinuncia, bensì rinascita: «Le forme che spariscono rimangono nel ricordo, nelle tracce, nei racconti che ancora si possono tramandare», come spiega la stessa artista. In questa scelta risiede una delle ambizioni più radicali del progetto: far dialogare l’arte con il sacro, il tempo collettivo con la memoria, e trasformare la perdita in forma di rilancio simbolico.
Uno dei meriti del percorso è l’aver trasferito al museo l’aura del rito e dell’esperienza partecipativa. Le sale del MAN accolgono fotografie, video, sculture e stendardi in cenere ma, soprattutto, un grande tavolo evocativo che richiama mani e impasti, simbolo di un ideale spazio di condivisione.
Tuttavia, nel passaggio dall’esperienza collettiva alla fruizione museale, si corre il rischio che il gesto rituale venga feticizzato come oggetto estetico, perdendo parte dell’efficacia performativa originaria. Turba rivendica dunque una relazione orizzontale con i partecipanti e una osmosi tra gesto artistico e comunità. Eppure, l’atto di selezione – quali desideri vengono rappresentati, quali pannelli narrativi esplodono nello spazio museale – resta sotto il controllo dell’artista e curatrice.
Si apre allora una questione non marginale: fino a che punto il progetto rimane “aperto” e non diventa una narrativa orchestrata? Il rischio di riduzione iconica – desideri ridotti a simboli universali, privati della complessità che li ha generati – non è da sottovalutare.
Il momento del rogo, che conferisce il carattere epico e liturgico al progetto, è anche il maggior rischio: ridursi a gesto spettacolare, piuttosto che a momento di elaborazione simbolica. Il fumo e la cenere evocano la fragilità e l’effimero ma la sfida è mantenere la tensione critica, non cedere alla retorica del mito. Se il rogo diventa un “atto estetico” fine a se stesso, la forza del progetto può perdere la sua densità poetico-politica.
La scelta della Sardegna, «Terra profondamente legata alla tradizione del pane rituale», non è affatto casuale. In quel territorio, infatti, la memoria del pane rituale — e del fuoco come elemento purificatore o trasformativo — possiede radici profonde. Qui il gesto finale acquista densità simbolica e una plausibilità culturale che rafforza il progetto. Sul piano espositivo, questo legame territoriale dà corpo al mantra del pane come «Nexus tra materia, gesto e memoria».
I pani del desiderio afferma la capacità dell’arte contemporanea di entrare nella vita delle comunità, attivare processi simbolici profondi e proporre nuove forme di solidarietà simbolica. In un tempo segnato da divisioni e isolamento, Turba ci invita a reimparare a “impastare insieme”, a riconoscere che il desiderio – per quanto individuale – cerca sempre una forma pubblica.
Tuttavia, l’equilibrio è delicato: l’arte relazionale corre il rischio costante della spettacolarizzazione del partecipato. In questo caso, il successo è nella misura in cui il visitatore, oltre a contemplare la cenere e le fotografie, avverte il peso di quel pathos collettivo e ritorna, anche simbolicamente, a impastare speranze. Se il destino dei pani è diventare cenere, che quella cenere diventi seme. Come scriveva Paul Valéry, «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi». In questa mostra, il paesaggio è il desiderio condiviso e chi guarda è chiamato a rimettere le mani in quell’impasto simbolico.
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