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La fotografia rappresenta la morte, la pittura la vita

di - 5 Settembre 2001

Da Il Giornale del 3 settembre 2001, dalla prima pagina
” La fotografia rappresenta la morte, la pittura la vita”
Riflettevo oggi, visitando la mostra Un paese incantato” curata in Palazzo Tè a Mantova da Anna Ottani Cavina, alla differenza fra pittura e fotografia. Di quell’incanto oggi resta ben poco. Ed è con infinita malinconia che noi vediamo quei paesaggi silenziosi che i grandi pittori stranieri videro con infinito stupore. Thomas Jones scrisse che tutti i luoghi dipinti gli erano già apparsi in sogno, ma quando vide da vero l’Italia gli sembrò una “magic land”.
Quella magia c’è in tutti gli artisti francesi, tedeschi, olandesi, norvegesi che trovarono in Italia ciò che altrove non c’era. E che oggi, purtroppo, anche in Italia non c’è più. Ma, mentre una fotografia di un luogo perduto ci offre, inevitabilmente, l’immagine ferma di qualcosa che non c’è più’, e quindi rappresenta la morte, la pittura resta eternamente presente. Ci restituisce, comunque, la vita. Un paesaggio, un borgo, un sito archeologico, oggi aggrediti da orrori edilizi o da cattivi restauri, in pittura continuano ad essere quello che sono stati. E anche se una veduta dia dissolta e una città sconvolta o devastata, la sua memoria c’è sempre in quell’immagine dipinta. Che è, anche se non è più. E’, non: è stata. Questa è la forza della pittura nella quale non si dissolve l’incanto dell’Italia perduta. “
Vittorio Sgarbi


Facile a mio avviso dissentire, non ritrovare in queste poche righe una sorta di rifiuto per la valenza artistica che la fotografia ha e continuerà ad avere come forma d’espressione.
Si potrebbe essere daccordo, ma solo in parte, se venisse intesa come rappresentazione della morte quella fotografia documentaristica che inevitabilmente subisce nel tempo obsolescenza e finisce realmente nel rappresentare ciò’ che è stato, ma anche in questo caso ho i miei dubbi.
Un ritratto è, e rimane, un’opera d’arte (quando lo è) sia in pittura che in fotografia anche se il soggetto non è più fra noi, non vedo sinceramente distinzione con un paesaggio.
Mi riesce difficile pensare a paesaggi di Fontana o Giacomelli (tanto per citare due estremi) o alle foto di Basilico e Ghirri e vedere nelle loro opere tracce di “morte” e se anche fosse sarebbe la stessa morte che ritroveremmo in un dipinto, di qualcosa che non è più.
Da sempre è il ricordo che mantiene in vita il passato, e se volessimo accettare la tesi della fotografia come rappresentazione della morte dovremmo rivisitare tutta la nostra storia fatta d’immagini che rappresentano, a modo loro, la vita.
Spero nel mio piccolo, vista l’autorevolezza di Sgarbi, che tutto dipenda da una mia errata interpretazione, ma resta forte in me l’impressione che non sia solo un inno alla pittura ma bensì l’ennesima stilettata alla fotografia, che proprio in questi ultimi decenni sta raggiungendo una sua maturità e, se di questo non si spaventano i mercati (felici delle quotazioni di innumerevoli autori), evidentemente si preoccupano i quei critici ancora legati ad un’immagine forse troppo classica dell’arte.



Maurizio Chelucci


[exibart]

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  • Giuseppe praticamente dici che l'artista non è libero se non è parte integrante del tessuto sociale.
    Ma come fa a non esserlo?

  • Ed è forse proprio su questo punto che non ci troveremo mai, Italia."La fotografia rappresenta la morte, la pittura, la vita": è questo il punto di partenza.Le vibrazioni interiori, definite deliberatamente come corrispettivo dell'anima, non potrebbero semplicemente essere provate anche nel caso in cui si faccia della fotografia (per esempio), un uso intimistico e personale?Se a spasso per una accattivante città europea, avverto il trascinante bisogno di immortalare quei luoghi, di per me so che un domani saranno i negativi di un trascorso ricordo.Per l'appunto, "morto", se le vibrazioni interiori non me ne dessero memoria. Ma ciò non è arte. Sarebbe, ad esempio, arte se io appositamente venissi ospitato da un'associazione culturale in un luogo x, per applicare il mio estro e sciogliere dunque le mie vibrazioni che devono aderire in qualche modo a ciò che mi si propone:cultura del luogo tout court, perché l'artista è colui che con il tempo sviluppa il sentore, e che addirittura avverte cose che aleggiano ancora allo stato aeriforme, prima che accadano. E questo è chiamato a fare(perché è della qualità professionale che io parlo, come già sottolineai). Per cui, sperando di non aver frainteso il senso della frase finale, è di facile intendimento che non posso accettare la possibilità che, nel caso in cui l'artista non trovi congeniale una certa realtà antropologica, urbana, storica, non intervenga perché scevro di tali vibrazioni.L'artista deve essere, secondo il mio umile parere, in grado di sviluppare idee, almeno potenzialmente applicabili, ogni qualvolta(ed io direi sempre)il suo apprendistato è richiesto, perché sentitamente voluto. Dobbiamo accettare che la figura dell'artista, -credo dall'Umanesimo in poi-, è divenuta parte integrante del tessuto sociale e se ne abbisogna a un dipresso come tutti coloro che svolgono libere professioni. E infatti, l'artista deve rimanere "libero", e tale statuto non deve guadagnarselo con le armi o con la ribellione,come si faceva un tempo, con la solitudine e l'atteggiamnìento saturnino(sebbene siano qualità che possono coesistere ugualmente), bensì, con la poliedricità culturale e la flessibilità mentale, unici antidoti per integrarsi nell'arte contemporanea.Grazie della possibilità di confronto, non è incaponimento ma pura dialettica.

  • Caro Maurizio Chelucci
    Sono d'accordo con te ma ormai è di moda non mettere il proprio nome forse pensano che il mistero renda più interessanti.
    Tutti hanno diritto alla parola ma penso sarebbe più dignitoso presentarsi di persona, dire ciò che si pensa senza timore di essere riconosciuti, essere resposabili delle proprie idee.

  • Quando ho scritto questo articolo non pensavo certo di "scatenare" tanto dibattito, ma in fondo ne sono contento. La mia voleva essere una riflessione, non tanto a ribadire il ruolo importante che la fotografia ha nel nuovo millennio quanto per sottolineare che non dovrebbero esistere distinguo fra le varie arti espressive.
    Sono contento del tono degli interventi, sostanzialmente concilianti e convergenti, che indicano una grande maturità dei nostri lettori; non deve avere senso giudicare il mezzo, lo strumento ma, cio' che piu' conta, il risultato, la sua capacità di trasmettere emozioni, coinvolgere o respingere.
    Quello che lascia stupiti è invece la logica distruttiva, disaggregante e settaria di chi, uomo/donna di cultura, si ostini a creare barriere, tracciare solchi fra cio' che è meglio e no.
    grazie a tutti voi.

    P.S. usare nomi non propri è contario a tutte le regole non solo di netiquette, ma anche legali. A buon intenditor ....

  • Francamente era mia intenzione significare l'esatto contrario, e cioè, che qualunque sia la posta in gioco( a livello sempre professionale) l'artista deve rimanere sempre libero. La libertà, nel senso di Autonomia, è senz'altro un qualcosa che va guadagnato; e già ho detto, secondo me, in che modo. La libertà dell'artista, in quanto essere ed anima indipendente, è inderogabile e necessaria. Vi è, tra l'altro, un artista vivente che considera alcune delle sue opere fantasmi della sua mente, che necessariamente deve liberare: deve affrancarli dal loro stato di cattività. Lui, artista, è dunque "libero" di riscattare dall'oblio qualcosa che altrimenti rimarrebbe celato per sempre.E quando all'arte vengono meno i fantasmi della mente, che siano essi incubi oppure sogni, a venir meno è la sua quintessenza. Essere "autonomi" vuol dire procacciarsi ciò che è più confacente il proprio agire ed il proprio fare, derivandolo da un patrimonio che ci viene dato come tale. Essere "liberi", però, vuol dire anche non dipendere da nessuno sopra di noi, essendo dunque autonomi e indipendenti. Ma non scinderei le due parti, perché sono avvezzo a concepire il connubio di queste, come l'esito di una "grande realizzazione", che in ogni epoca possiamo aspettarci.

  • All' On. Sgarbi consiglierei di leggere attentamente la storia della fotografia dal 1821 con i primi "points de vue" eseguiti da Joseph Nicèphore Nièpce, ai giganti della fotografia:
    - Atget
    - Nadar
    - Alinari
    - Primoli
    - Sander
    - Strand
    - Modotti
    - Weston
    - Cartier Bresson
    - Capa
    ecc..ecc...
    Ciao Ciao

  • Vittorio Sgarbi non ha detto assolutamente nulla di nuovo.
    Non facciamo finta di non saperlo, non sottovalutiamoci.
    Certo è che dal pulpito tanto contraddittorio quanto colorito, spesso nauseabondo e noiosamente prevedibile, dal quale apprendiamo queste nuove “massmediate” il pubblico si muove a comando nell’essere condiscendente o contraddittorio ad esse, come se non ci fosse null’altro di meglio di cui disquisire in merito.
    Intendiamoci, non che in discussione sia la fotografia o la pittura.
    Ma ciò che ha detto Sgarbi.
    Lasciamo che Sgarbi discuta bene prima con se stesso e, poi, finalmente, ci dica come la pensa.
    Solo in seguito le affermazioni di Sgarbi potranno essere discusse.
    Prima gli chiediamo la decenza del rispetto della memoria, e lo ringraziamo fin d’ora.
    La fotografia, la Pittura.
    Discutere su cosa è meglio, cosa sia Bene meglio dell’altra… è puerile.
    La Morte, la Vita.
    La fotografia è esistita nell’Arte di Aristotele, quando sosteneva la teoria dell’imitazione.
    La fotografia ha guidato la mano di Shelley quando ha scritto sul Bargello fiorentino, o le deliziose immagini del Monte Bianco.
    Ha ispirato l’anima di Baudelaire che batteva le ciglia nello Spleen.
    “In me vedi il baluginare di un fuoco che giace sulle ceneri della sua giovinezza, come sul letto di morte sul quale deve spirare, consumato da ciò di cui si era nutrito” cantava Shakespeare.
    Non è fotografia questa?
    E’ Poesia.
    La Pittura.
    Mi pare basti.
    Ciao, Biz.

  • Dici bene Biz ,il canto stupendo di Shakespeare che ci -----

    Dici bene Biz, il canto di Shakespeare, che hai messo in evidenza, è fotografia perchè "si vede" ciò che sente ed è una meravigliosa poesia.

  • Dire che la fotografia ha sempre a che fare con la morte non mi sembra negarle valore. È riprendere l'idea chiave di un saggio straordinario sulla fotografia che s'intitola "La camera chiara", di un certo Roland Barthes.

  • il saggio di Barthes è un caposaldo della teoria sulla fotografia.... Sgarbi è sempre il solito anacronistico nutrito com'è esclusivamente dall'arte del passato....più corretto parlare d'immagine in senso lato e della sua "crisi" attuale in entrambi i settori... su questo argomento Baudrillard in "La violenza fatta all'immagine" ci illumina di sapere immenso....

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