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La Grande Mela morde ancora?

di - 29 Aprile 2013

Un sottofondo polifonico che intercetta lo skyline sintetizzato dalle icone della Statua della Libertà e dell’Empire State Building. Questo è il primo impatto che si ha con la Grande Mela e questa è la grande fucina della creatività universale. A New York qualcosa succede sempre, a ritmi frenetici. Tutto è possibile. Non è qui, del resto, che l’”American dream” affonda le sue radici? L’arte e gli artisti si prendono sul serio, come è giusto che sia, inseriti in un circuito in cui il mercato dell’arte ha un grande peso.
«New York è il maggior magnete per gli artisti che arrivano da tutto il mondo», afferma Norman Rosenthal che con il giovane collega Alex Gartenfeld è il curatore della mostra “Empire State. Arte a New York oggi” allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma con l’indispensabile sostegno di alcune importanti gallerie che opera in Italia come Gagosian e Massimo De Carlo (fino al 21 luglio). Punto di partenza del progetto, durato tre anni, è stata proprio la costruzione di una serie di rapporti intergenerazionali tra i venticinque artisti, selezionati tra oltre centocinquanta, che gravitano tra Chelsea, Lower East Side, Brooklyn: R.H. Quaytam, Adrian Piper, Danny McDonald, Uri Aran, Shadi Habib Allah, Dan Graham, Ryan Sullivan, Jeff Koons, LaToya Ruby Frazier, Antoine Catala, Michele Abeles, Bjarne Melograad, Darren Bader, Julian Schnabel, Rob Pruitt, John Miller, Nate Lowman, Virginia Overton, Moyra Davey, Joyce Pensato, Keith Edmier, Wade Guyton, Takeshi Murata, Tabor Robak, Renée Green.

Un confronto generazionale partito dagli stessi curatori, Sir Norman Rosenthal (Cambridge 1944, vive a Londra) che tra le numerose mostre è stato anche l’organizzatore delle rassegne “A New Spirit of Painting” (1981) e la più famosa “Sensation” (1997), mentre Gartenfeld (1986, vive a New York), editor per Art in America e Interview, dallo scorso febbraio è curatore presso il Museum of Contemporary Art (MoCA) di North Miami.
“Empire State. Arte a New York oggi” è una mostra in cui le opere di “top price” dell’arte contemporanea come Julian Schnabel, Jeff Koons e Dan Graham sono presentate accanto a quelle di giovani artisti, in alcuni casi perfettamente sconosciuti Oltreoceano (e forse anche dalle loro parti). Una mappatura dell’imprevedibile in cui c’è il tentativo «di ridefinire la cultura di una città in una maniera originale» (è sempre Rosenthal a parlare).
Equilibri precari attraversano il passato, remoto o meno, per tuffarsi nel presente, come i dinosauri di fiberglass di Pruitt che guardano quadri che raffigurano cumuli di libri o di rifiuti: artificiale flashback tra l’apocalittico e il reality show. Invece Penn Station Ciborium di Edmer richiama nella forma il baldacchino di San Pietro e conserva frammenti originali – proprio come una reliquia – del tratto di binario in acciaio, a forma di X, dell’antica stazione ferroviaria newyorkese rasa al suolo negli anni Sessanta. Koons guarda alla scultura classica reinterpretando in acciaio inossidabile lucidato a specchio (e inserendo una pianta vera con i fiori bianchi) l’Afrodite del II secolo a.C., ma anche dipingendo ad olio partendo da un’immagine di base foto riprodotta.
           
La Pop Art è la matrice, forse non dal punto di vista ideologico ma sicuramente formale, di molte delle opere esposte: dalle nature morte di Murata elaborate da immagini 3D, a Screen Peeking il video HD di Tabor Robak in cui il cibo viene presentato in quattro canali e in maniera diversa: «L’opera ci ricorda che non è mai possibile l’accesso all’oggetto in sé, ma solo a una molteplicità di distorsioni ideologiche, e che le persone raramente condividono le stesse fantasie», scrive Melissa Tuckman nelle pagine del catalogo.
«È stato molto interessante pensare a come presentare l’intera comunità di New York attraverso l’arte», afferma Alex Gartenfeld. «Una grande sfida, perché è quasi impossibile presentarla nella sua totalità e  globalità». Più lirico Rosenthal, per il quale la mostra è “una poesia sulla città”. Una ricerca soggettiva in cui la componente estetica è stato un movente molto importante: «La bellezza prende tantissime forme e in questa mostra si possono vedere cose molto pulite e pure, ma anche la sporcizia e la pazzia di New York. L’arte è una cosa complicata».

«Oggi gli artisti lavorano con tanti medium, così diversi»– aggiunge il curatore più giovane – «che non è più l’epoca di parlare in termini di stile e tecnica, invece bisogna pensare al modo in cui gli artisti interagiscono con la cultura». «Questi artisti hanno una visione del futuro e il nostro lavoro di curatori» – aggiunge Rosenthal – «è capire dove vanno queste visioni, non in un’ottica di progresso ma di continuità. Personalmente sono stato felice, e anche sorpreso, di vedere che nel nostro punto d’arrivo ci siano anche i più noti Schnabel e Koons, artisti controversi che la gente ama o odia, a dispetto di tutta la loro grande fama. Penso che, per noi, ci sia stato anche un senso di scoperta dell’autenticità».
In questa “scoperta dell’autenticità”, si colloca anche il lavoro che LaToya Ruby Frazier (Braddock, Pennsylvania 1982) ha dedicato alla sua città natale, geograficamente collocata appena fuori Pittsburgh. Sei sono le fotografie esposte in mostra, realizzate tra il 2010 e il 2011. Frazier, che è anche docente alla Rutgers University nel New Jersey, è l’unica artista che non vive a New York. Il suo lavoro, che affonda le radici nella tradizione documentaristica della Farm Security Administration (tra i mentori cita Walker Evans, Lewis Hine, ma anche Jacob Riis e Lee Friedlander) parte dal grande billboard dei jeans Levi’s fotografato a Houston & Lafayette, New York nel 2010.

La campagna pubblicitaria del noto brand mirava a tratteggiare con toni nostalgico-romantici la città di Braddock. «L’idea era quella di usare la mia città natale come una quinta. Braddock era la nuova frontiera in cui gli artisti erano invitati a venire per contribuire al rinnovamento della città stessa, che è la più antica città dell’acciaio negli Stati Uniti con la prima fonderia installata, nel 1873, da Andrew Carnegie» – spiega LaToya Ruby Frazier – «L’ironia è che questa massiccia campagna con cui è stata tappezza l’intera città di New York era al culmine quando l’ospedale della mia città è stato buttato giù. Braddock ha molti problemi ambientali, soprattutto di inquinamento causato dai vecchi impianti, per cui era pericoloso per gli artisti venire da noi e abitare in mezzo ad una popolazione di operai che hanno tante malattie, per via del lavoro in fabbrica. Nella mia famiglia mia nonna è morta di cancro, mia madre ha avuto il cancro e io ho il lupus. Non solo è stato abbattuto il nostro ospedale di sei piani, ma è stato anche eliminato qualsiasi fondo a sostegno di quest’emergenza. Per me è stato interessante vedere queste false immagini di propaganda e l’illusione di come la vita potesse diventare. Ho usato il bianco e nero perché da artista credo che l’estetica debba rinforzare il concetto».

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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