Era un pomeriggio come tanti, presi come sempre nel nostro piccolo quotidiano, quando in pochi minuti non c’è stato media che non abbia sospeso la sua programmazione per svolgere il suo “dovere”: informare; nel bene ma soprattutto nel male.
Un tam tam sommerso faceva squillare telefoni per condividere, coinvolgere, esternare quello che, nella percezione di tutti (e lo dico senza retorica), avrebbe cambiato l’occidente.
Nel vedere le prime immagini, allo sgomento per quanto accadeva, ai morti non ancora visti ma più terribilmente immaginati si sovrapponeva il pensiero di mia figlia,
Non è stato solo l’ennesimo dramma della follia umana ,che colpisce indistintamente l’oriente quanto l’occidente, ma anche l’apoteosi mediatica che ha definito nuovi standard della realtà.
Erano passati un paio di giorni dal 11 settembre, le immagini delle torri bersagliate dagli aerei continuavano (e continuano) a passare sotto i nostri occhi come un macabro gingle (tanto da far dimenticare che un terzo aereo uccideva trecento persone al pentagono, “dimenticati” non per il numero ma solo per l’assenza di sequenze forti) e per la prima volta ho modo di soffermarmi su alcune foto. Sono immagini di Nachtwey, su Time, non sono forti come le sequenze a cui la tv ci ha abituati ma ho finalmente modo di fare mio l’evento, osservare senza fretta, riflettere, concentrarmi sui particolari. Foto che posso rivedere in ogni momento, mettere da parte o continuare a guardare, momenti di cui riesco ad essere, non schiavo ma, padrone.
E’ qui la forza della fotografia, non solo mantiene viva la memoria, ma si lascia penetrare rispettando i tempi e le capacità d’osservazione di ognuno di noi.
Proporre oggi, in un contesto museale gli attimi, i momenti di quei giorni, deve essere apprezzato perché
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