C’è Dorotea, nelle sue tinte grigio-azzurre, che svanisce immateriale nel profilo sfaldato di torri lontane erose dal vento. C’è Zobeide, dalla trasparenza cristallina, sospesa a mezz’aria nella notte eterna di una luna da sogno orientale. C’è Ottavia, ragnatela terragna attraversata dal movimento sinuoso di un fiume che si ripiega a spirale come fosse un serpente-kundalini. E c’è Andria, indagata al microscopio di un alfabeto cifrato di segni minuscoli, come realtà arcane di un primitivo indifferenziato che esisteva già prima di ogni esistenza.
Si può continuare ancora a lungo su questa via, per infinite suggestioni e per altrettanti nomi, tutti rigorosamente declinati al femminile. Ma non si tratta di donne. Sono cinquantacinque in totale e sono Le città invisibili di Italo Calvino (Einuadi, 1972), rivisitate da Pedro Cano (Blanca, 1950) negli acquerelli in mostra a Palermo. Prima che un ciclo pittorico pensato e ragionato, Le città invisibili sono un’avventura esistenziale nata dall’incontro fortuito di dell’artista con Calvino oltre vent’anni fa. Era il marzo del 1984. Cano esponeva in una galleria romana, quando il giorno dell’inaugurazione un visitatore d’eccezione –Calvino appunto, insieme alla moglie Chichita «dagli occhi colore del mare»– fece il suo ingresso, segnando per sempre il destino del giovane pittore spagnolo. L’anno dopo, nel 1985, l’autore de Il barone rampante moriva improvvisamente. Cinque anni ed un oceano di mezzo dopo -Cano si era trasferito intanto a New York- non avevano tuttavia sbiadito il ricordo né il senso di quell’incontro eccezionale. Di ritorno a Roma Cano ebbe modo infatti di incontrare nuovamente la vedova Calvino: fu allora che “Chichita” regalò al pittore una copia de Le città invisibili e gli suggerì di farne materiale per la sua ricerca artistica.
Da quel momento il libretto non ha mai smesso di accompagnare Cano dovunque andasse, in tutti suoi viaggi, in tutti i suoi trasferimenti per il mondo, divenendo quasi una sorta di privato Baedeker, nella cui caleidoscopica varietà potere calare l’emozione viva di ogni nuova scoperta, di ogni nuovo incontro. Dalla nostalgia per ogni luogo amato e poi abbandonato, all’ansia per ogni frammento di vita perduto e il miracolo di ogni nuova verità conquistata.
Su fogli fatti a mano, smarginati e dal sapore antico e già vissuto, andavano così prendendo forma da sé, quasi per auto-impressione, le città immaginate dall’artista in una sollecitazione continua con il racconto di Calvino. Dai primi schizzi abbozzati sulle parti bianche del libro, Cano è passato allora ad una più radicale e sistematica opera di “illustrazione” del testo, in cui la suggestione della pagina scritta si nutre tuttavia, diversamente che in Calvino, di un fondo di verità, della memoria visiva di tante occasioni realmente vissute. Le velature ad acquarello non sono allora che stratificazioni di senso, schegge impazzite di fatti, cose e persone trasfigurate nelle metafore di una “biblioteca infinita”. Che esiste per davvero da qualche parte e attende solo di essere scoperta ed esplorata.
davide lacagnina
mostra visitata il 28 gennaio 2005
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PEDRO SEI GRRRRANNNDDDEEEE!!!!! VIVA IL KEVIN KLINE DELLA PITTURA ISPANO-ITALIANA!!!!!
Lo sto studiando..sto preparando la mia tesina di maturità sulle sue opere d'arte in relazione alle "città invisibili" di Calvino e dovevo commentare per forza anch'io..perchè è DECISAMENTE ECCEZIONALE!!!