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Attraversando il limite sottile tra la vita e la morte. Teresa Margolles al Pac di Milano

di - 28 Aprile 2018
Fuori dal PAC, ora, c’è un tavolino di cemento grigio con due sedute. Appena arriva il caldo a Milano, ogni scusa è buona per sostare all’aperto e non c’è nulla di anomalo se alcuni ragazzi sono seduti lì attorno a chiacchierare. Passata una tenda da vecchia macelleria di provincia, di quelle con i fili di plastica rumorose, colore rosso sangue, si entra nella prima sala del PAC allestita con un grande tappeto rosso: è il palcoscenico di Ciudad Juarez, la capitale del narcotraffico messicano, la porta tra Messico e Stati Uniti, che dal 2009 è la città più pericolosa del mondo con oltre 2.500 omicidi all’anno e circa 900 bande armate. Calpestando il sangue, si cammina tra le sale della mostra in un perenne equilibrio tra la consapevolezza della vacuità della vita e la presenza costante delle morte.
Con “Ya basta hijos de puta”, Teresa Margolles, nata a Culiacán, in Messico, nel 1963, di formazione anatomopatologa e diventata, poi, collaboratrice del collettivo di Città del Messico SEMEFO-Servicio Médico Forense, restituisce uno spaccato della violenza dell’uomo sull’uomo, dimostrandosi una tra le artiste più attive nella denuncia della brutalità nella società contemporanea. La Margolles parla di Messico ma le lotte tra bande, gli stupri e la sottomissione del più debole sono cronache quotidiane ovunque. È con una evocazione che l’artista accoglie i visitatori del PAC, con un’opera realizzata durante la performance nel weekend di MiArt: calcinacci e un martello per terra, sul muro una ferita aperta, come quella lasciata dalla bomba intimidatoria della mafia che proprio al PAC uccise nel 1993 quattro vigili del fuoco e un clochard, o una vagina lacerata, come quelle delle donne costrette a prostituirsi.
La polisemia caratterizza la mostra, a partire dal titolo: Ya basta hijos de puta è il graffito trovato sopra uno dei tanti morti di Juarez, un messaggio alla gang rivale, un segno di demarcazione del territorio, come fanno i cani con il loro piscio. Ma con quel “puta” la Margolles evidenzia una delle offese più gettonate al genere femminile in una società ancora fortemente maschilista. Le donne infatti possono essere esibite sulle prime pagine dei giornali per vendere più copie, possono essere umiliate e stuprate e anche fatte sparire, senza che nessuno possa fare niente se non aspettare. Nella seconda sala, la registrazione del passaggio di un treno merci che attraversa Juarez per 12 chilometri fa vibrare i pannelli dove sono appesi i volantini con le foto delle ragazze scomparse. La Búsqueda è lo straziante stato di sospensione tra la vita e la morte, il momento dell’attesa e dell’ignoto, dell’assenza di una giustizia in uno stato che consente più di 2.800 casi di femminicidio all’anno.
La dicotomia tra morte e vita è il fil rouge dell’intera esposizione, da La Gran América, 1400 ciottoli plasmati con l’argilla del Rio Grande, fiume nel quale ogni giorno muoiono diversi migranti che tentano di varcare il confine con gli Stati Uniti, o 57 Cuerpos, un filo lungo 21,9 metri composto da 57 pezzi, 57 residui di filo usati dopo le autopsie per ricucire i corpi delle vittime non identificate in un obitorio di Guadalajara. Come ogni ciottolo respira la morte di un migrante, il filo diventa reliquia e tentativo di creare una memoria di persone ferocemente ammazzate. Con Vaporización, il feticcio diventa un passaggio di testimone tangibile, non ci sono oggetti né immagini, si è avvolti da una nebbia generata da acqua disinfettata nella quale sono stati immersi i lenzuoli usati per avvolgere vittime di violenza: la morte penetra i vestiti, la pelle. Si prende coscienza che è un attimo passare all’al di là, scomparire e rimanere immortalati in una foto o sulle prime pagine di un giornale o in un volantino incollato su una lastra di plexiglass alla stazione, finché non sbiadisce col tempo. Si inizia a respirare la morte diventando tutt’uno con il ciclo dell’esistenza.
Uscendo viene voglia di sedersi sulla panchina vista all’entrata. Mesa y dos bancos è realizzata con cemento mescolato a sostanze raccolte nell’area in cui è stato ritrovato un cadavere vicino alla frontiera nel nord del Messico. Come la droga, la morte diventa elemento del quotidiano. (Giulia Alonzo)
In alto: Teresa Margolles, PAC Milano, Mesa y dos bancos 001, photo Rafael Burillo

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