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Biennale, architettura e altro/5. “Reporting from the front” dai Giardini, dove vincono periferie e sostenibilità, con tante ipotesi di miglioramento. E poi?

di - 26 Maggio 2016
“Edifici come alberi, città come foreste”. È da questo incipit, contenuto nel progetto dell’ingegnere chimico Michael Braungart, che si dipana il Reporting from the front di Aravena al Padiglione centrale ai Giardini. Tutto è basato, in larga parte su un assioma: l’architettura sostenibile non serve a causare meno danni all’uomo, ma deve apportare più benefici alla sua vita. Ecco allora che vi sono edifici che respirano, ritorni all’uso millenario della terra come elemento costruttivo (la materia è più sostenibile dei materiali). D’altra parte, di nuovo, è impossibile nascondere la testa sotto la sabbia rispetto al problema globale della spazzatura. Lo studio di Battle I Roig in Spagna, a tal proposito, è emblematico e inquietante allo stesso tempo: si tratta di far tornare vere e proprie discariche in paesaggi. Come? Occultando sotto qualche metro di terra compattata e non, pietre, ghiaia, tutti i rifiuti compattati. Ne nascerà un nuovo giardino, dalle fondamenta infernali. Magari vi potrà non piacere l’idea, ma si tratta di una delle soluzioni praticabili, e già attuate anche in Italia e in Europa, per poter smaltire in parte un problema senza precedenti dell’ultimo secolo.
Tra i progetti in scena, poi, anche quello dell’archistar Renzo Piano o meglio del suo gruppo di lavoro, G124, dedicato alle periferie. L’architetto, Senatore a vita, ha dato questo nome partendo dal suo ufficio a Palazzo Giustiniani, trasformato in campo base dove giovani progettisti lavorano per riqualificare le periferie, “luoghi del futuro, ricchi di energia e vivi più che mai”, scrive Piano. E così, dal Giambellino di Milano al Librino di Catania, da Otranto a Torino, nei progetti futuri ci sarà anche Mestre, dove Piano ieri ha fatto visita, e dove ha dichiarato di poter fare qualcosa. Una promessa che lascia parecchi scettici, come le stesse possibilità di recupero di aree che già con lo stesso uso del linguaggio si tende a isolare e, contemporaneamente a sacralizzare. In entrambi i casi a separarle dalla città.
Sul tema si veda anche il progetto dello svizzero Christian Kerez, partito da un concetto semplice e complesso: imparare ad essere resilienti seguendo il modello di autoproduzione delle favela brasiliane. Attenzione però: non si tratta di poeticizzare nulla, né tantomeno di far sì che la “spontaneità” la faccia da padrone, ma soltanto di prendere con il beneficio del dubbio qualche possibilità di sviluppo.
Qualche dubbio sulla tautologia di un progetto che non si chiamerebbe altro, in arte, è Andes Shadows, degli architetti Mirene Elton e Mauricio Léniz: “Il sopralluogo come esperienza trasformatrice”, tutto dedicato ad esperienze di formazione tra le montagne delle Ande. Più suggestivo a vedersi, tra cavalletti e schermi piatti in barba alla sostenibilità, che a spiegarsi.
Di nuovo sulle periferie, in questo caso francesi, opera LAN ovvero Local Architecture Network. Partendo dal presupposto che la rabbia viene generata dalla disuguaglianza, attraverso due operazioni (la prima di demolizione e la seconda di recupero) lo studio tenta di dimostrare come ribaltare gli assiomi che conosciamo e a cui imputiamo anche, in parte, la nascita dei terroristi degli ultimi giorni. A chiudere idealmente il padiglione il report di Maria Giuseppina Grasso Canizzo in Sicilia. Per resistere alla mediocrità e alla banalità di un ambiente urbano, visto in piccola scala. E dove su uno schermo compare un messaggio: “Equivalences between the old torno and suburbs”. Come, ancora, c’è da scrivere. Nonostante le ipotesi non manchino.

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