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Contaminazioni in Triennale. Ecco gli “Abiti da lavoro”, in una mostra che fa sognare tra modelli incredibili e mestieri impossibili

di - 25 Giugno 2014
Inaugura stasera alla Triennale di Milano la mostra “Abiti da Lavoro” in cui si intrecciano i campi di indagine di moda, arte e design, per raccontare l’identità contemporanea attraverso il tema della divisa. Progetto promosso e curato da Alessandro Guerriero, si fonda su un dialogo tra la scuola Tam Tam, i cui allievi hanno trasformato gli schizzi di numerosi artisti in cartamodelli, e l’organizzazione Arkadia Onlus che grazie proprio a questa iniziativa ha aperto una sartoria sociale, che ha realizzato gli abiti.
La mostra espone il concetto di abito da lavoro interpretato da 40 artisti internazionali, che propongono una loro visione dei cambiamenti della società odierna in cui l’abito perde la sua mera funzione, e si pone invece come forma di espressione della propria individualità. La mostra di Guerriero parla dunque di come il vestito possa in questo caso costituire un progetto che ognuno fa per se stesso, a delineare un’immagine programmatica della propria identità.
Una vetrina di identità possibili, una schiera di abiti è appesa tra le sale in un susseguirsi di mestieri fantastici e lavori impossibili. In apertura la creazione di Issey Miyake, una tuta realizzata in tessuto termico color oro normalmente impiegato per i soccorsi di emergenza, un invito quasi a entrare in un luogo che di consueto e ordinario ha ben poco. Seguono infatti abiti per bizzarri personaggi come il cacciatore di nuvole di Antonio Marras, il monaco titubante di Denis Bonapace o il potatore di alberi di Lucia Pescador. Altre figure sembrano invece balzate fuori da favole atemporali, e prendono forma la coltivatrice d’orto, la raccoglitrice di conchiglie e quella di carote, immaginate da Elio Fiorucci, Nanni Strada e Colomba Leddi.
Appesi a un grande tubolare oro che taglia longitudinalmente le sale, i 40 abiti esposti invitano a essere girati, toccati, tastati, persino attraversati e a zigzagare tra le stoffe esplorando cappucci, mantelli, cestini e stivali. Si crea un’interazione talmente intima con questi vestiti che, se appena iniziata la visita scappava una risatina ironica a pensare che quello del gelataio vegetale potesse essere un lavoro con tanto di abito, uscendo ognuno di noi finirà per pensare un po’ timidamente che, in effetti, da grande voleva fa il pittore di sogni. (Elisabetta Donati De Conti)

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