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Il futuro delle fiere dell’arte contemporanea? Ve lo spiega “Fairland”, una raccolta di saggi che fa il punto della situazione. Grazie a miart

di - 1 Luglio 2014
Si chiama Fairland ed è stato commissionato da miart. Ecco un altro motivo per credere in una fiera che oltre a vendere e cercare di risollevare le sue sorti, cerca anche di fare cultura. O quantomeno di dare un ordine al suo status, di interrogare sé stessa. Lo fa Vincenzo De Bellis, al terzo anno di mandato, commissionando al curatore Francesco Garutti (già un paio di anni fa) l’editing di un volume presentato alla Triennale stasera.
Un progetto che il direttore di miart aveva in mente dalla sua nomina, e che faceva leva sulla volontà di “ristrutturare” la fiera, seguendo «Due punti di urgenza, uno interno e uno esterno: ridare alla manifestazione identità e un po’ di centralità tra Moderno e Contemporaneo, mentre l’urgenza esterna era che miart avesse qualcosa da dire non solo alla città, ma anche in ottica nazionale e internazionale», spiega De Bellis.
Una kermesse insomma dal contenuto non solo commerciale, ma anche composta di attività a latere che avessero un forte carattere. «Il libro nasce per ipotizzare quello che il format della fiera rappresenta a livello globale, e quali possano essere gli sviluppi futuri e la complessità del sistema dell’arte, di un mercato che è fondamentale per lo sviluppo», continua De Bellis.
Il volume raccoglie undici interventi di artisti, curatori, etnologi e critici in un discorso che lo stesso curatore Garutti chiede di «leggere casualmente, lasciandosi trasportare per scoprire che ogni filo si intreccia». Anche per lui si tratta di un momento di riflessione, della volontà di una fiera di guardare dove si va a parare, quali sono i termini del suo futuro, del suo successo, del suo sviluppo. E, appunto, con una serie di voci particolari si sceglie la meta-rappresentazione, raccontando le dinamiche con uno sguardo laterale. Con quello, per esempio, dell’etnologo Franz Schultheis, che studia le dinamiche di Art Basel da dietro le quinte, per tracciare la strada e di quello che è l’elitismo di un sistema; c’è Léon de la Barra, curatore sudamericano che ha raccontato in “soggettiva” la sua idea di fiera, in base alla sua esperienza nei Paesi latini; c’è Gabriel Kuri che l’ha raccontata per “fumetti”, così come Jos de Gruyter & Harald Thys.
Tra gli altri “interpreti” c’è anche Stefano Baia Curioni, storico dell’economia e membro del board di Fondazione Ratti e Piccolo Teatro, che in Triennale sottolinea, così come nel suo testo, un aspetto sotto gli occhi di tutti, ma che non tutti hanno colto negli ultimi anni di fierizzazione (le fiere di arte contemporanea degne di nota nel mondo sono circa 200): «C’è una grandissima ripetitività sia nella logica espositiva, con una sorta di accademismo strisciante e una concentrazione degli stessi artisti in tutte le fiere». Come dare torto a questa visione? E come dare torto anche all’idea che nulla sia cambiato nelle fiere-mercato dalla loro nascita nel Medioevo ad oggi: «Commercianti degni di nota, con merci degne di nota, per un pubblico di nobili primi e borghesi poi che devono sentirsi parte di una elite. E così la fiera è un universo che in qualche modo basta a sé stessa ed è sempre più difficile entrarvi». In sala si ripercorre però anche l’idea della fiera di oggi, partendo dalla storica edizione del 1967 della prima fiera di Colonia, non esattamente un mercato ma un raggruppamento di artisti tra cui Palermo, Richter e Polke alla Galerie Friedrich: traslando, un gruppo di galleristi che ne esclude un altro, che porta alcuni artisti legati a movimenti e che dunque crea un mondo che soddisfa una richiesta decisamente esclusiva.
Cosa succederà alle fiere nel futuro? Secondo Baia Curioni poco o nulla: resteranno macchine in grado di camminare da sole, Basel in primis, «Ma la selezione sarà destinata a continuare, perché senza selezione non c’è comunità». Autodeterminazione, come sempre.

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