La modalità è semplice: sedetevi e guardate i venti minuti che compongono Dialogue with the unseen. Alla vostra sinistra, in un video a doppio canale, va in loop un camminamento nel deserto del Negev, mentre a destra Saleh dialoga con il rapper Eisa Khalifa (a Nazareth, al tramonto), e con la poetessa Asmaa Azaizeh (tra le rovine di quella che era la vecchia Haifa).
Cosa scoprire attraverso queste immagini, nel profondo, ieri sera lo hanno raccontato l’artista e l’attore, in una conversazione che ha preso forma seguendo il solco delle parole nel corto.
Un dialogo che Valerio Rocco Orlando ha descritto come un “episodio ulteriore del film” (girato con il supporto delle associazioni Assopace Palestina, Città Mondo, Fondazione Mon Soleil, e il Dipartimento di Mediazione Linguistica dell’Università di Milano) in cui la questione fondamentale diventa il tentativo di uscire dall’identità palestinese del “territorio”, dell’occupazione, del conflitto, della diaspora.
Tra i luoghi “non-specifici” dove ricercare una spiritualità non raccontabile perché puramente soggettiva – come racconta Saleh all’artista – anche i protagonisti di Dialogue with the unseen sembrano evadere, con una leggerezza e poesia tutt’altro che scontate, un’identità eternamente scritta, oltremodo indagata.
Perché dietro la storia contemporanea c’è sempre la vita. E c’è il modo di sentire di Saleh Bakri la propria professione in relazione alla comunità, e ci sono le domande dell’esistenza. Quelle di sempre. Cos’è l’invisibile? “L’invisibile sta dietro di me, ma è anche dentro di te. Alcune persone lo chiamano energia, ma le sue definizioni non sono mai molto interessanti”, racconta Saleh.
E invisibile è anche l’espansione che si ha del concetto di arte, “Quello che dopo questo progetto penso di aver sperimentato”, e il senso di appartenenza culturale di una comunità che resiste malgrado la storia.
Un modo differente e rarefatto di interpretare una collettività, una geografia politica, e anche la percezione del linguaggio.
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