Il “Cruising Pavilion”, progetto curato da un gruppo di giovani curatori internazionali, Pierre-Alexandre Mateos, Rasmus Myrup, Octave Perrault e Charles Teyssou, aperto fino al primo luglio, ospita più di venti opere realizzate da artisti, collettivi artistici o architetti, con nomi che vanno da esponenti di spicco della scena artistica come Monica Bonvicini, Tom Burr e Henrik Olesen ad artisti emergenti come Prem Sahib fino ad architetti come Diller Scofidio e Odile Decq.
La pratica del “cruising”, per chi non avesse dimestichezza con il gergo homo, è la ricerca d’incontri sessuali fra uomini in parchi pubblici, toilette, parcheggi, non-luoghi di varia natura o interstiziali, così come abbondano nei contesti urbani, oppure in club e saune.
Nello spazio partizionato da due alte impalcature sulle quali sono esposte le opere ci si può affacciare sul cortile centrale, disseminato di kleenex e profilattici, dalle pareti perforate, in un richiamo formale ai glory holes. Un chiaro statement emerge contro l’eccezione di “freespace”, tema centrale di questa biennale curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara; questa mostra si prefigge di chiedersi cosa significhi spazio libero, libero per chi o da che cosa, e si unisce a un canto del cigno per pratiche che si avviano a tramontare, come quella del cruising appunto, stroncate da app per incontri, speculazione urbana e reificazione delle sottoculture (LGBT+ inclusa). Le voci qui raccolte questionano la produzione dello spazio etero-normativo e rivendicano l’atto del cruising come gesto radicale di dissidenza verso un’architettura sanitizzata e moraleggiante. All’inaugurazione a corroborare l’atmosfera si offriva, oltre alle consuetudinarie bevande da vernissage, anche tiri di popper. (Mattia Solari)
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