Diciamolo subito: Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka), nella riscrittura che, del Gabbiano di Anton Čechov, ne ha fatto, con una lingua libera e quotidiana, Liv Ferracchiati (consulenza letteraria di Fausto Malcovati), è uno spettacolo bellissimo, di fulminante incisività, pieno di ironia e divertimento, davvero vicino alla radice cechoviana, e con i dialoghi resi più duri e taglienti nel mettere in scena la tragedia della vanità e dell’incomprensione. E che Čechov sia oggi più che mai “contemporaneo” per i temi affrontati, per l’inquietudine palese che ci trasmettono, per quel senso di inadeguatezza dei suoi personaggi, per quel trovarsi a vivere in una società che ormai da tempo ha perso la sua bussola e fatica a ritrovarne un’altra, lo conferma la capacità di scavo e moderna sovrapposizione di scrittura che un giovane drammaturgo come Ferracchiati sa farne.
Il titolo della pièce è ispirato a un racconto dello scrittore statunitense David Foster Wallace, Caro vecchio neon, dove il protagonista Neal, un uomo suicidatosi qualche tempo prima, in un momento del monologo interiore post mortem, racconta i motivi del proprio gesto e ricorda che, quando prese la drammatica decisione, osservò come «Tutto sembrava tremare un po’, come tremano le cose riflesse nell’acqua».
Perno del Gabbiano è il giovane Kostja intento nella scrittura convinto che la parola possa plasmare nuovi mondi, e sempre in cerca del riconoscimento della madre Akradina che lo biasima anche come artista. Lei, attrice sopravvalutata dai suoi prossimi nella casa in cui si svolge l’azione, è un po’ Deus ex machina di tutta l’infelicità in scena. C’è, nella pièce attuale, tutta la trama cechoviana con tutti i suoi intrecci, ma declinata drammaturgicamente in una struttura testuale a sé stante, con aggiunte e spostamenti, dove ritroviamo i personaggi del Gabbiano oggi, plasmati nella nostra contemporaneità.
Ferracchiati, nell’universalizzare in ruoli, ciascuno con la propria indicazione esistenziale, i nomi dei personaggi cechoviani – fatta eccezione per Nina, il gabbiano che si brucia le ali per fame di gloria, simbolo e incarnazione stessa del Teatro maiuscolo -, così li descrive: Arkadina, la Madre, una grande attrice forse in declino; Kostja, il Figlio, uno che prova a influenzare la realtà con la scrittura; Sorin lo Zio, uno che voleva essere, ma non è stato; Trigorin, il Romanziere, uno a cui piace pescare, ma deve scrivere; Nina, una che vuole fare l’attrice o la rivoluzione; Maša, la Vicina, una che porta prugne e il lutto per la sua vita; Dorn, il Dottore, uno sazio della vita; Medvèdenko, il Maestro, uno a cui tocca camminare.
Parlano e vestono come noi tutti i personaggi di Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka), che la regia colloca dentro un moderno e ampio spazio domestico – che è cucina, studio, salotto, sala da pranzo -, e spesso rivolti verso il fondale con la lunga vetrata dove appare il riverbero dell’acqua di un lago, quasi un personaggio, che Čechov descrive nel suo testo. È il lago, spazio fisico e mentale, sempre presente negli occhi e nel discorrere dei dialoghi, a influenzare e stregare le esistenze di quel manipolo di infelici che ancora oggi avvertono l’inadeguatezza della vita. Quel che si dicono e quel che sentono viaggiano in malate asincronie. Sono, le loro, conversazioni piene di solitudine, nel tormento di essere quello che vorrebbero essere e non sono. Čechov li ha fissati mirabilmente, per quella sua capacità di ritrarre l’analisi profonda della condizione umana, mettendo al centro della scena i conflitti generazionali e la ricerca di nuove forme di fare teatro, di scrivere.
Il capolavoro cechoviano rappresenta ancora oggi un grande saggio anche sulla psicologia dell’attore. Sul suo funzionare bene nell’arte e peggio nella vita. I personaggi di Ferracchiati – e dello scrittore russo – cercano nella letteratura e nel teatro la forza per continuare a vivere le proprie illusioni. E quel lago simboleggia una palude di sogni che non si riescono più a sognare, nascondendo anche a sé stessi il fondo oscuro della propria anima, proprio come le acque torbide del lago fanno all’osservatore.
Intanto, in mezzo a tutto questo, tra una canzone di Luigi Tenco Mi sono innamorato di te – che prosegue “…perché non avevo niente da fare” -, e una dei Queen Crazy little thing called love, che dicono dell’amore impossibile da vivere, si parla di una nuova poesia imprecisata e simbolica che deve essere compresa, di cui Kostja e la sua amata Nina sono i seguaci. La storia si sa come finisce: Nina e Trigorin staranno insieme, avranno un figlio che morirà, lui tornerà da Arkadina, Nina girerà per i freddi teatri di provincia mentre Kostja la rimpiange e intanto scrive racconti che vengono pubblicati. Lui però non vuole essere uno scrittore di novelle, ma lasciare un segno più forte, più innovatore nel mondo che sente più suo, il teatro. Entrambi saranno sconfitti. Sgombrati tutti gli arredi della casa, tranne un divano e lo scrittoio, s’apre a loro, infine, accogliendoli, una luminosa, impalpabile scena bianca per il toccante colloquio finale che sancirà l’andata via della ragazza-gabbiano e il suicidio di Kostja con un colpo di pistola.
Un unico respiro corale attraversa tutto il cast – con solo qualche elemento un po’ fuori tono -, in cui spicca la sempre magnifica Laura Marinoni nel ruolo di Arkàdina, e Nicola Pannelli in quello del fratello Sòrin, mentre, tra i giovanissimi sorprende Giovanni Cannata per presenza, maturità, tensione e aderenza al personaggio di Kostja, animato da ardente furore. E ancora Marco Quaglia (Dorn), Petra Valentini (Nina), Camilla Semino Favro (Mascia), Cristian Zandonella (Medvèdenko), Roberto Latini (Trigòrin).
“Come tremano le cose riflesse nell’acqua”, drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati, liberamente ispirato a “Il gabbiano” di Anton Čechov, scene Giuseppe Stellato, costumi Gianluca Sbicca, luci Emiliano Austeri, suoni spallarossa, video Alessandro Papa, consulenza letteraria Fausto Malcovat. Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Al Teatro Studio Melato, fino al 25 febbraio.
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