Categorie: Teatro

DANZA

di - 21 Giugno 2019
È subito intensa, emotivamente e visivamente, la lunga sequenza iniziale. La Venere fanciulla,  con parrucca bionda e maschera cerea, volteggia nell’aria sorretta e mossa da quattro danzatori uomini in un continuo scioglimento del gesto in un altro. Essi roteano, strisciano, si ribaltano al suolo in funzione di lei senza mai staccare le mani dal suo esile corpo e senza farle mai toccare terra. Sono, essi, simulacri, un corpo unico di minuscoli atomi esplosi. Nello spazio vuoto con quinte di candidi veli trasparenti, in un’atmosfera rarefatta, di bruma e di suoni minacciosi, la danzatrice Ramona Caia – sorprendente nell’abbacinante snodarsi del suo fisico – plana e subito s’invola. Si abbandona leggiadra, senza peso; s’intreccia e si snoda come una marionetta, tra le mani, le braccia e le gambe dei suoi boys al punto da sembrare lei la loro guida. Con cedimenti e scatti improvvisi, teneri e violenti; con strappi e scosse, lenti e urtanti, gli interpreti disegnano nell’aria traiettorie pulsanti, architetture interiori sulla musica evocativa di Francesco Giomi. Generano respiri affannosi, silenzi meditativi, parole riflesse: quelle dei versi di Lucrezio dal De rerum natura cui danno corpo. Alla “Venere-dea dell’atto generativo” evocata all’inizio del poema, s’ispira lo spettacolo di Virgilio Sieni La natura delle cose (riallestito a distanza di dieci anni dal debutto, al Teatro della Pergola di Firenze nell’ambito del festival Fabbrica Europa 2019), che ha nella voce recitante della cantante Nada, il suo respiro. E c’è un verso di Lucrezio che la voce fuori campo ripete più volte: “Improvvisamente mi afferra una divina letizia e, insieme, l’orrore”. È “Venere che agisce come una forza che disattiva e rende inattive le “feroci opere” dell’uomo” come spiega il filosofo e drammaturgo dei testi Giorgio Agamben. Per il poeta latino ciò che incanta e accende il desiderio, si rovescia nel suo contrario. Quei simulacri, nel loro formarsi e trasformarsi nello spazio vuoto e nel suono, sono gli amanti illusi da Venere. Sembrano a tratti voler celebrare il suo sacrificio, o ingaggiare un duello mortale animati da un furore sacro e dei sensi. Si avvincono come a volersi saziare del suo corpo, staccarle qualcosa della sua tenerezza, confondersi con essa.
Virgilio Sieni, La natura delle cose, 2019, foto di Stefania Vasapollo
Finché, con le membra snervate, si sciolgono affranti. Si allontano. Ritornano. Solitari, poi di nuovo in gruppo, a riprendere il gioco, dove lei è principio d’incanto, impulso al movimento, origine della natura. La coreografia, avvolgente nei movimenti, tesa nel battito dell’accanimento, incede ipnoticamente nell’ovattata atmosfera, dove appare, dietro le bianche tende, una gigantesca mano grigia. La bellezza compositiva del quintetto, dalle combinazioni plastiche simili a blocchi scultorei, ripete se stessa con piccole varianti. Cambia il volto di Venere con indosso tre differenti grandi maschere che la trasformano in creatura adolescente, in bambina, e infine in anziana. Sono le tracce della memoria nel corpo dell’adulto, tre età, tappe esistenziali scandite a ogni cambio da un distacco dai performer per una danza appartata, via via infantile, poi forte, quindi affaticata. È una Dea dalle posture snodabili che, dai fragili arti conquista poi la posizione eretta, per incurvarsi infine nell’affanno della vita vestita con un luccicante abito rosso, i capelli bianchi, il volto rugoso, mentre ci guarda e tende le braccia; per riapparire dallo svolazzante velario, con una testa di cervo. Si asciuga la testa, si lecca la mano, mentre una luce rossa invade la scena. Come ferita indietreggia. E ci emoziona fortemente, più della precedente rappresentazione del debutto, questa danza poetica, di natura filosofica, mentale e sensoriale, di rapinosa bellezza plasmata su un pentagramma di movimenti rigeneranti che rivelano l’anima e l’origine della natura delle cose.
Giuseppe Distefano

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